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Paper Beast – Recensione

Éric Chahi è un po’ il Daniel Day-Lewis del mondo dei videogiochi. Al pari del superbo protagonista di film come Gangs of New York o Il Petroliere, pur avendo realizzato pochissimi videogiochi, pur essendo conosciuto da un ristretto numero di appassionati, ha fatto la storia del medium, regalandoci nel corso dei decenni capolavori senza tempo da cui ben più blasonati colleghi hanno tratto ispirazione per le loro produzioni.

Se il nome Another World non vi dice nulla o siete troppo giovani, oppure vi siete persi un’avventura dall’art design unico nel suo genere, oltre che uno dei primi esempi di narrazione ambientale, strategia oggi piuttosto in voga che delega lo sviluppo della trama unicamente ai dettagli dello scenario o alle reazioni dei personaggi al fluire dell’azione. Niente cut-scene, nessun dialogo, per intenderci, per un gioco tutto da decodificare e da cui restare inevitabilmente affascinati.

Paper Beast, da questo punto di vista, è un diretto pronipote dell’esperimento pubblicato nell’ormai lontanissimo 1991. Stilisticamente le analogie tra le due produzioni si sprecano, su tutte l’adozione del low poly come linguaggio espressivo predominante; la trama si presta ad innumerevoli interpretazioni, rinunciando come l’antenato a qualsiasi forma di dialogo con l’utente; il gameplay sceglie lo stesso minimalismo formale, mostrando tutte le sue sfaccettature nell’ingegnosità dei puzzle proposti.

Non c’è la stessa esplicita separazione tra esplorazione ed enigmi, ma per trovare un più contemporaneo termine di paragone vale certamente la pena citare il geniale The Witness.

Paper Beast, esclusiva per PlayStation VR, è il bizzarro viaggio di sola andata nel sogno di un software, l’esplorazione dello stato di incoscienza proprio del coma o di quell’infinito attimo che precede la morte, lo spegnimento totale dovuto alla progressiva cancellazione di ogni linea di codice.

Il prologo è particolarmente straniante, un tutorial ben mascherato che vi vedrà spettatori di un videoclip interattivo, utile per prendere confidenza con il sistema di controllo, preferibilmente, ma non necessariamente, affidato ad una coppia di Move. Il teletrasporto vi permetterà di spostarvi per l’ambientazione vanificando qualsiasi possibilità di essere colti da motion sickness. Due pulsanti permettono di voltare le spalle dell’ectoplasmatico avatar, mentre con il trigger di uno dei due controller potrete interagire in vario modo con gli elementi dello scenario che lo permettono.

La permanenza nel coloratissimo e squadrato ambiente digitale, che ricorda per molti versi quello già incontrato in Tron o in Beat Saber, dura poco. La cancellazione del programma stesso vi catapulterà in un gigantesco deserto abitato da animali di carta, simili ad origami, sconfinato habitat che, senza uno scopo preciso, dovrete esplorare raggiungendo una location dopo l’altra, risolvendo gli enigmi ambientali che vi verranno suggeriti senza l’intervento di alcuna didascalia esplicativa, né altro indicatore a schermo.

Paper Beast, per certi versi, più che un puzzle game è accostabile ad un simulatore di ecosistema, di un mondo evidentemente morente, eppure ancora vibrante di vita, di specie che rispettano una catena alimentare ben definita e con cui dovrete scendere a patti ora per difendere alcune creature, ora per aprirvi la strada sfruttando i pattern comportamentali che caratterizzano ogni animale.

Sotto ammalianti cieli carichi di nuvole a forma di lettera, o all’interno di grotte oscure flebilmente illuminate da piante fluorescenti, sarete continuamente bloccati da ostacoli di qualche tipo. Un corso d’acqua, un cumulo di sabbia, una voragine.

Osservare sarà un requisito fondamentale per venire a capo di qualsiasi difficoltà. Solo contemplando il normale corso della natura potrete capire come influenzarne le sequenze di causa ed effetto a vostro vantaggio. Potrete così scavare un canale con cui ridare vita ad un albero creduto morto, convincere piccole creature ad erigere una montagna di fango, prosciugare un lago. La soluzione non è mai scontata e risolvere un puzzle dopo l’altro è solo parte di quanto di buono abbia da offrire il gioco di Chahi.

La contemplazione vi permetterà di immergervi in panorami quasi astratti, visivamente fecondi di fascino

La contemplazione, difatti, vi permetterà di immergervi in panorami quasi astratti, visivamente fecondi di fascino. Soprattutto quando la linea d’orizzonte si amplia a dismisura e il cielo si tinge di innumerevoli colori, avrete l’impressione di essere piombati all’interno di un quadro di Dalì. Pur non potendo incappare in alcun game over, le stesse creature vi restituiranno potenti sensazioni contrastanti. Impossibilitati dal comprenderli ne sarete istintivamente spaventati, incerti se finiranno o meno per attaccarvi, eppure non smetterete mai di osservarli, persino di parlarci nel tentativo di capire cosa stiano cercando di suggerirvi con le loro movenze.

Sebbene tecnicamente il lavoro di Pixel Reef non sia irreprensibile, stilisticamente il gioco entra di diritto nell’Olimpo delle produzioni per PlayStation VR, uno dei tanti titoli da far provare ai detrattori di questa tecnologia.

Conclusioni

Paper Beast è, senza troppi giri di parole, un autentico capolavoro. La longevità relativamente contenuta (siamo intorno alle sei ore circa) è forse l’unico ambito, insieme a quello prettamente tecnico, che mostra lievemente il fianco a qualche debole critica.

Per il resto, Éric Chahi ha di nuovo fatto centro, regalandoci un’avventura onirica ed astratta semplicemente maestosa, toccante, emozionante. I puzzle proposti, risolvibili sfruttando a proprio vantaggio l’ecosistema del mondo morente che funge da setting, sono estremamente brillanti, mai scontati, a loro modo unici.

Consigliato senza alcuna remora a chiunque sia un fiero possessore di un PlayStation VR.