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Perception – Recensione

Perception nasce da una storia vera: quella di Susannah, giovane donna accusata di stregoneria nel lontano 1860 e, dopo due processi sommari, condannata a morte impietosa. Una storia che, nonostante gli anni trascorsi, tocca da vicino Bill Gardner, Director di The Deep End Games legato alla donna da vincoli famigliari. Perception nasce come omaggio alla memoria di Susannah, mosso da una forte – e per certi versi inaspettata – morale che, sino alla fine, si nasconde astutamente tra le pareti di quella che può sembrare l’ennesima casa infestata: per quanto possa essere detto sul vostro conto, per quanto fiato si sprechi sulle vostre spalle, non lasciatevi mai abbattere dal giudizio degli altri.

Perception è un horror insolito, uno di quelli che rifugge lo spargimento della minima goccia di sangue prediligendo piuttosto la creazione dell’atmosfera, di quel mood opprimente ed angosciante capace di destabilizzare chi stringe il pad tra le mani minandone la lucidità. Un walking simulator senza armi o energia, per intenderci, reso ancor più interessante dall’introduzione del principio di ecolocalizzazione sonora: sì, perché Cassie è cieca dalla nascita, e nonostante le vessazioni psicologiche subite sin dalla tenera età è in grado di orientarsi “a orecchio”, sfruttando il suono prodotto da colpo del proprio bastone per ricreare mentalmente la geometria dell’ambiente che la circonda. Un’idea geniale, quella dei ragazzi di The Deep End Games e Feardemic, specie se applicata in quel contesto horror/thriller entro cui Perception si muove: il risultato, tuttavia, convince solo a metà, minato da una serie di difetti leggermente troppo vistosi e da una ripetitività che, superato lo stupore iniziale, lascia poco spazio all’immaginazione.

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Non serve addentrarsi molto nella trama di Perception per accorgersi delle penne pregiate che la compongono: parte del team proviene direttamente dalle ex-pareti di Irrational Games, e inutile sottolineare come il contesto narrativo rappresenti uno degli aspetti più peculiari dell’intera produzione. Badate, abbiamo detto peculiare: questo perché per gran parte del playthrough (dalle 4 alle 6 ore, a seconda della vostra volontà di esplorare i quattro “scenari” disponibili) non avrete la minima idea della forma definitiva che i tasselli raccolti fino a quel punto andranno a comporre. Perception si svela col contagocce, regalando quattro storie all’apparenza slegate una all’altra (tra cui quella di Susannah o quella di una donna desiderosa di prendere parte al secondo conflitto mondiale per raggiungere l’amato), congiunte però da un inesorabile precipitare degli eventi ed accomunate da un finale tragico.

Fil Rouge di questo cripticismo narrativo è proprio Cassie, dotata di una sensibilità così elevata da rivivere le storie dei precedenti inquilini della tetra magione raccogliendo documenti, leggendo missive mai spedite o semplicemente toccando oggetti “speciali”, capaci di veicolare a distanza di anni le emozioni, siano esse positive o negative, dei vecchi proprietari. Una corda, una mela, un’ascia e un biglietto: questi gli elementi nitidi negli incubi tormentati di Cassie, questi i totem da cercare e “ascoltare” per capire cosa nasconda davvero quella casa. E, di riflesso, per capire cosa spinga una giovane non vedente ad avventurarsi all’interno di un maniero tutto tranne che ospitale.

Un’idea geniale, quella dei ragazzi di The Deep End Games e Feardemic

Perception assume delle connotazioni fortemente esplorative, sfruttando inesorabilmente il principio di ecolocalizzazione per ricreare un’immagine approssimativa della stanza entro cui Cassie si muove. La gestione del sonoro appare sin da ora prioritaria, laddove l’assenza pressoché totale di una colonna sonora enfatizza ogni nostro movimento all’interno della casa – che, dal canto proprio, non lesinerà certo rumori e brontolii inquietanti. Maggiore l’intensità e la durata del rumore da noi prodotto, maggiore sarà l’effetto dell’ecolocalizzazione: detto in parole più semplici, maggiore sarà sia la dimensione dell’area identificata, sia la durata della “visione sonora” così attivata. Non solo: materiali differenti reagiscono diversamente al bastone in nostro possesso. Battere su un tappeto o su un divano, ad esempio, non produrrà lo stesso effetto di un colpo sul legno massello, su un mattone o su qualcosa di metallico. Tutte variabili da tenere ben in considerazione per due motivi: il primo l’abbiamo appena spiegato. Il secondo è che, lì dentro, non saremo mai da soli.

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La necessità di usare il bastone per attivare la nostra vista speciale andrà rapidamente ridimensionata per evitare spiacevoli incontri con quella che viene identificata come Presenza, una creatura mostruosa che vaga nel desolato scenario e, da quanto si può desumere dai brevi cenni testuali reperiti nel corso del gioco, alimentatasi del dolore, dell’odio e delle delusioni degli antichi proprietari. Un mostro insaziabile dall’udito sopraffino: abusare del rumore ci renderà prede identificabili, e a meno di non avere a portata di mano un letto sotto cui nascondersi, un armadio o un baule abbastanza capienti, incrociare la sua strada preluderà un incontro tutto tranne che piacevole – con annesso reload della partita, che complice un sistema di checkpoint automatici abbastanza generoso non obbliga mai a lunghe sezioni di backtracking. Come sopravvivere a questa minaccia? Dosando l’unica arma con attenzione, accontentandoci del leggero flash scaturito dal rumore dei nostri passi o, se necessario, ricorrendo a tappeti, divano o altre cose “morbide” quando la casa stessa ci ammonisce sull’arrivo dell’ospite indesiderato.

Proprio per questo, in Perception non ci si muoverà mai nel buio più completo: certo è che divincolarsi tra i numerosi corridoi e le strutture labirintiche ideate dai designer non sarà un gioco da ragazzi nella quasi oscurità – da cui eccoci nuovamente al trade off di cui sopra. Al netto della visuale “a sonar” di Cassie, che andrà a tratteggiare di luce i bordi di qualsiasi elemento presente in scena, potremo fare affidamento alla sua memoria eccellente per quanto riguarda la posizione di “oggetti speciali” quali porte o nascondigli, per poi sfruttare una sorta di intuito (attivabile tramite il dorsale sinistro) che andrà ad illuminare l’obiettivo corrente. Detta così sembra sin troppo facile, ma vi assicuriamo che raggiungere una cassettiera a due piani sopra la nostra testa, nonostante fosse illuminata a giorno, non è stata operazione così scontata.

Lì dentro, non saremo mai da soli

I nodi, tuttavia, arrivano al pettine prima del previsto. Per quanto interessante e per certi versi innovativo, il gameplay di Perception smette di stupire rapidamente a causa di una ripetitività dei pattern a dir poco evidente. L’assenza di momenti memorabili nel corso del playthrough, una costante “ricerca” del percorso sino all’obiettivo corrente risolvendo qualche semplice enigma ambientale, viene smorzata soltanto in parte dalla minaccia incombente rappresentata dalla Presenza – che, tuttavia, imparerete a gestire rapidamente, evitandovi premature dipartite senza eccessivo impegno. Perception soffre di una forte linearità, mascherata sagacemente dalla cecità della protagonista e dal ricorso costante all’ecolocalizzazione – ma, ancora una volta, è una sorpresa che destabilizza soltanto la prima ora, per poi cadere nella prevedibilità. Questo non significa che Perception non offra momenti emotivi ben riproposti o della sana tensione in alcuni passaggi: l’assenza di varietà nelle situazioni, purtroppo, fa scivolare lentamente l’esperienza di gioco al di là della soglia di prevedibilità (o addirittura della noia, in un paio di passaggi), sprecando un potenziale di sicuro interesse.

L’unica molla che spinge davvero a concludere Perception è la componente narrativa, come dicevamo in apertura, volutamente criptica e necessariamente legata al reperimento dei numerosi collezionabili disseminati nelle aree. Ancora una volta, però, la ciambella non riesce perfettamente con il buco: il finale della creatura di Gardner e soci è veloce e sbrigativo, per certi versi quasi parziale, e riesce a colmare soltanto alcuni dei punti aperti in precedenza senza però dimostrarsi esaustivo come ci si aspetterebbe. L’obiettivo del team di sviluppo, com’è comprensibile, è quello di spingere ad esplorare quanto più possibile l’area di gioco, in modo da avere abbastanza elementi per ricreare quei sottili collegamenti altrimenti invisibili. Difficile riuscirci in una sola run, e una volta raggiunti i credits si ha l’impressione che qualcosa di importante sia stato omesso. Come se si fosse perso per strada, nascosto nel silenzio della fitta oscurità.

Conclusioni

Ha del talento, ma non si applica abbastanza. Una frase che abbiamo sentito svariate volte nella nostra vita, e che per quanto banale si applica alla perfezione al caso di Perception: un titolo curioso, indubbiamente sui generis, figlio di una visione unica e di un’idea, lo ripetiamo ancora una volta, dalle potenzialità devastanti. L’omaggio di Bill Gardner allo sfortunato epilogo della propria ava è un’avventura intensa, misteriosa e a tratti persino malinconica, capace di dare un nuovo significato al concetto di “atmosfera” (inteso come mood legato ad un’esperienza ludica) sfruttando con intelligenza quell’ecolocalizzazione che, di norma, viene associata a pipistrelli e affini.

Un’idea interessante, un walking simulator dalle tinte horror angosciante quanto serve: potrebbe essere la partita perfetta, non fosse per quell’esasperante ripetitività dello stesso gameplay, privo anche della sola ombra di un acuto memorabile, per una linearità a dir poco evidente e, non ultimi, per una serie di bug (dall’AI della presenza alla gestione dei sottotitoli, che di propria volontà alternano inglese e italiano) di cui, alla lunga, è impossibile non accorgersi. Perception gioca con i nostri sensi, e persegue con convinzione quella morale destinata a divenire lampante all’interno di un epilogo che, oggettivamente, avrebbe potuto essere migliore. Ma incespica vistosamente lungo il percorso, rialzandosi a fatica per poi scivolare nuovamente. Un’avventura che vale la pena di provare, ma a cui quel provvidenziale bastone non basta del tutto.

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