01 Apr 2016

Quantum Break – Recensione

Quantum Break lo stavamo aspettando in tanti. L’atteso ritorno di Remedy sotto i riflettori che contano, l’esclusiva di peso ancora virtualmente assente all’interno del panorama generazionale di Microsoft, il titolo capace di mescolare videogioco e cinema (grazie anche ad un cast stellare raramente arruolato in una produzione videoludica) in un modo così indissolubile da fondere nel vero senso della parola i due medium: solo queste ragioni basterebbero a giustificare i livelli esagerati di hype raggiunti dall’IP, annunciata per la prima volta tre anni or sono, e oramai da qualche settimana sulla bocca di tutti. Chiacchiere entusiaste, commenti di impazienza ma anche amare delusioni, come l’ennesimo scandalo “ResolutionGate” impacchettato a pochi giorni dal lancio o, come i più ricorderanno, l’inattesa perdita di “esclusività” di Xbox One appannaggio di una versionePC: di Quantum Break, insomma, se ne parla da parecchio tempo.

Già, il tempo, l’assoluto protagonista dell’ultimo lavoro dei ragazzi di Remedy, a digiuno di successi dai tempi (ormai lontani) del lodato Alan Wake. La quarta dimensione, il concetto meta fisico più amato – e spesso abusato – dai giorni in cui l’uomo ha assistito alla nascita del pad: non è certo un segreto che, nell’universo dei videogiochi, la possibilità di manipolare il tempo per i propri scopi eserciti un potere magnetico sul giocatore. Lo sapeva beneUbisoft, che con Prince of Persia: Le Sabbie del Tempo immolò totalmente il proprio gameplay all’alterazione del flusso temporale; lo stesso vale per capolavori come quell’Ocarina of Time di Zeldiana memoria, o per il meraviglioso Braid di Jonathan Blow. Quantum Break si infila in questo filone non certo a testa bassa, forte di una componente narrativa, almeno sulla carta, tranquillamente paragonabile a quella di una sceneggiatura delle più recenti series e di un impianto tecnologico, nonostante le disquisizioni tecniche di cui sopra, di sicuro impatto. Un successo garantito, quindi? La risposta emersa dalle nostre due settimane di prova, in realtà, è meno avvincente di quanto le premesse avessero suggerito. E se è vero che “il tempo è potere” viene da pensare che, nonostante la lunga attesa, lo studio finlandese abbia finito per esaurirlo troppo in fretta.

Prendete un ragazzaccio, uno di quelli intelligenti ma con la testa non sempre ben attaccata al collo. Metteteci un vecchio amico, un genio assoluto della fisica quantistica che ha fatto milioni di dollari grazie alle proprie scoperte, e un fratello maggiore ancora più geniale, ma con il quale non esiste più l’ombra di un rapporto umano dalla morte dei relativi genitori. Due cervelli a cui la scatola cranica sta dannatamente stretta, uno dallo spiccato senso degli affari a fianco di un altro, analitico e matematico anche nelle situazioni più complesse, che lavorano assieme da una manciata d’anni ad un progetto segretissimo di cui, al di fuori dell’Università di Rivenport, non si sa nulla. O quasi nulla, se proprio vogliamo considerare quella torre altissima della Monarch visibile nel centro della città a decina di miglia di distanza. Jack Joyce, a spasso dall’altra parte del mondo, viene richiamato dal nulla da Paul Serene per uno scopo ben preciso: raggiungere Rivenport e aiutarlo a collaudare il risultato a cui lui e William sono arrivati.

Già, William, il fratello di Jack che, per qualche motivo, manca dall’università proprio nel momento clou della ricerca: uno studio avanzatissimo basato sui chronon, particelle fisiche elementari alla base della continuità del tessuto temporale. Qualcosa inerente l’evoluzione della teoria del dottor Kim, mentore di William e Paul, a cui si deve la scoperta di uno specifico “campo” che determina l’esistenza stessa del tempo così come la possiamo soltanto intuire. Un’esistenza che, alle quattro di quella maledetta notte, verrà messa a repentaglio dall’esperimento di Serene, di cui Jack è incolpevole aiutante: un’autentica Frattura di questa dimensione, che apre uno sconcertante futuro per il destino dell’umanità. E in un universo dove il concetto di tempo diventa qualcosa di estremamente relativo e, soprattutto, manovrabile a proprio arbitrio, toccherà proprio a Jack – imbottito di particelle chronon – trovare una soluzione al problema. Rigorosamente prima della fine del tempo.

Se dalla nostra breve sinossi avete intuito ben poco del canovaccio narrativo di Quantum Break non preoccupatevi, è voluto. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare nell’apertura di questa recensione, uno dei punti di forza di Quantum Break è proprio la narrazione – di cui, per ovvi motivi, sveleremo soltanto le componenti indispensabili. Non che la tematica dell’alterazione del tempo non rappresenti un terreno scarsamente abbordabile per sviluppare un racconto come si deve: tuttavia il titolo Remedy parte col piede giusto sull’acceleratore, snocciolando una quantità di informazioni esagerata – alcune delle quali squisitamente tecnologiche e “artificiosamente” reali – per introdurre velocemente chi gioca a quanto destinato a succedere di lì a breve. Dalle classiche mail ai messaggi in segreteria, passando per altri collezionabili narrativi disseminati nei cinque atti di cui si compone il titolo, Remedy non lesina informazioni un solo istante: e se alcune di queste hanno mera valenza di cornice avulsa dalla narrazione principale (nonostante Il coltello del Tempo rappresenti una delle cose più esilaranti potessimo aspettarci), dall’altra il giocatore più attento troverà una serie di dettagli a margine utilissimi per approfondire i retroscena più torbidi, soprattutto nelle battute iniziali, della vicenda.

Indubbio merito va al cast di Quantum Break, che spazia dagli ottimi Shawn Ashmore (Jack), Dominic Monaghan (William) e Aidan Gillen (Serene) ad uno strepitoso Lance Reddick (Hatch)

Una vicenda che, di cose torbide, ne ha a bizzeffe. Da qui arriva forse la trovata più impensabile di Quantum Break: una mini serie ad episodi con attori in carne ed ossa, incentrata sulle vicende parallele a quelle di Jack Joyce viste dal punto di vista della Monarch Solutions. Quattro episodi della durata ciascuno di circa venticinque minuti, che al termine di ciascun atto (ad esclusione di quello finale) cercano di far luce sulle cause, le implicazioni o gli effetti che determinate scelte potranno avere su scala globale: il tutto, ovviamente, senza perdere il focus da Jack e “amici”. Dal punto di vista “televisivo”, quanto prodotto da Remedy è eccellente: non fosse per i 75 GB di spazio aggiuntivo richiesti per memorizzare fisicamente gli episodi – normalmente disponibili in streaming, Recitazione e fotografia non sono affatto male. Indubbio merito va anche al cast arruolato per Quantum Break, che spazia dagli ottimi Shawn Ashmore (Jack), Dominic Monaghan (William) e Aidan Gillen(Serene) ad uno strepitoso Lance Reddick, apprezzatissimo nei panni di Broyles in Fringe. Il cinema, dicevamo, che si fonde con il videogioco: e se l’inattesa fusione, in termini assoluti, ci è sembrata interessante e sensata, la sceneggiatura ci ha tutto sommato convinto grazie anche a qualche colpo di scena studiato con attenzione.

Quantum Break parte a cannonate, levando il fiato e solleticando la curiosità del giocatore, per poi rallentare leggermente nelle sezioni centrali e stupire con un colpo di coda conclusivo tutto sommato piacevole. La storia originale targata Remedy, ad essere critici, avrebbe potuto forse essere un pizzico più originale: per quanto sia piacevole e soddisfacente osservare come i pezzi del puzzle si incastrino al progredire della storia, Quantum Break non offre qualcosa di davvero diverso rispetto a quanto si sia osservato altre volte su grande o piccolo schermo. Dalle penne che hanno scritto la storia del grande Alan Wake, ad essere onesti, ci saremmo aspettati qualcosa che andasse oltre i “classici” stilemi del mosaico del viaggio nel tempo: ma la storia, sia chiaro, tiene sino alla fine e, nonostante alcuni passaggi dubbi, assolve perfettamente il proprio compito.

L’importanza delle scelte del giocatore, sin dall’annuncio del titolo, ha rappresentato uno dei punti chiave della narrativa di Quantum Break. Il motivo è facilmente intuibile: in un contesto dove il tempo si piega alle volontà del protagonista, ogni sua decisione – anche la più elementare – rischia di avere un effetto potenzialmente disastroso sull’intera umanità. Nei cinque atti di cui si compone l’IP, tuttavia, la tanto attesa intelaiatura decisionale si dimostra più elementare delle aspettative. Impossibile attendersi una struttura “ad albero” come quella del recente Until Dawn (un paragone comunque azzardato, vista la stessa natura del titolo targato Sony), ma dovessimo contare gli interventi decisivi di chi gioca, rimarremmo parzialmente delusi.

Questo perché, a conti fatti, esistono quattro momenti definiti in cui saremo chiamati a scegliere tra due alternative diametralmente opposte: nei panni di Paul Serene, al termine di ogni atto (ancora una volta, escluso l’ultimo) il giocatore sarà messo spalle al muro di fronte a due possibili alternative, ciascuna delle quali tanto rischiosa per lui e per Monarch quanto necessaria ad arginare la minaccia Joyce. L’esposizione al chronon di cui è stato vittima permette a Serene (come del resto a Jack) di avere brevi visioni del futuro, un aspetto questo che si traduce nella possibilità di osservare un breve filmato in stile “what if” prima di compiere il passo cruciale. Va ammesso che ciascuna strada porta a binari narrativi completamente diversi (un punto sicuramente a favore della rigiocabilità del titolo), anche se avremmo preferito una struttura meno rigida sotto questo punto di vista, magari con un’accentuazione più diretta del principio di causa/effetto. Qualcosa, insomma, che andasse oltre le otto Propagazioni Quantiche presenti nel titolo, che vengono attivate individuando specifici elementi di scena e determinano specifici cambiamenti direttamente nella “serie TV”.

L’importanza delle scelte, sin dall’annuncio, ha rappresentato uno dei punti chiave della narrativa di Quantum Break

Veniamo ora al nodo più critico di Quantum Break, il gameplay. Il titolo Remedy, nell’impostazione, è il classico action shooter in terza persona a telecamera posteriore, ricollocabile a piacimento alla destra o alla sinistra del busto di Joyce. Uno shooter che strizza l’occhio a Ritorno al Futuro, e che dunque mescola nuovi poteri (di cui parleremo a breve) ad altre meccaniche ormai rodate e ben note, che chiunque si aspetterebbe di trovare da una produzione di tale calibro: un gunplay frenetico e coinvolgente e un sistema di coperture adeguato. Peccato che qualcosa vada storto già dalle basi, e proprio quest’ultimo aspetto è uno dei meno riusciti della produzione.

Del cover system di Quantum Break se n’è parlato già abbastanza nelle settimane pre-release, grazie alla proliferazione di video in quel di YouTube: e se da un lato non serve ripetere concetti già noti, dall’altro è impossibile non notare come una delle meccaniche portanti del TPS venga implementata in modo parziale e, spesso, disastroso. In corrispondenza di un’eventuale copertura non sarà necessario premere alcun pulsante per posizionarsi, visto che sarà lo stesso Joyce a farlo in autonomia: tutto perfetto, non fosse che il nostro alter ego ha la malsana abitudine di rimanere a debita distanza dalla copertura stessa, regalando una quantità di linee di tiro inimmaginabili (specie alle difficoltà maggiori) ai numerosi cecchini disseminati negli atti più avanzati. Non solo: rispondere al fuoco avversario farà alzare Jack dalla copertura, rendendolo un bersaglio ancora più comodo ai soldati nemici – che, è il caso di ricordarlo, pur non presentando un’intelligenza futuristica hanno dalla loro numero e armamenti.

Tocca quindi muoversi rapidamente da una copertura all’altra, consci del fatto di non essere mai con le spalle perfettamente coperte nel caso di un attacco nemico. Correre, ma soprattutto sfruttare gli effetti della nostra esposizione al chronon, di fatto l’unico vero appiglio che ci separa da una morte prematura: da un certo punto di vista, la labilità del sistema di coperture di Quantum Break potrebbe passare in secondo piano di fronte alla magnificenza dei poteri di Jack. Del resto, dovessimo metterci nei panni della stessa Remedy, perché non cercare di promuovere il vero “plus valore” di questo neo-protagonista, la capacità di alterare il tempo, sacrificando almeno in parte gli elementi più standard del gameplay? Peccato che, pad alla mano, il feel finale sia del tutto diverso.

Ok, il tempo. Come più volte ripetuto nel corso di quest’analisi, la forza di Jack Joyce deriva direttamente dalla sua capacità di “alterare” la quarta dimensione, agendo sul suo normale scorrere o canalizzando i chronon (le famigerate particelle alla base del tempo stesso) per poi modificarne il campo di forza. Un set di capacità che richiedono una laurea in fisica per essere apprese (da cui, innegabile, deriva un certo fascino), e che in termini di gameplay si traducono in poteri dal sicuro impatto coreografico, oltre che devastante: Jack potrà creare unoscudo, tanto per iniziare, grazie al quale deflettere i colpi nemici o guadagnare parte della salute persa. Potrà creare una “bomba temporale”, ideale per danneggiare i nemici più coriacei, o indurre una stasi selettiva in corrispondenza di una piccola area – grazie alla quale rallentare il tempo, sino quasi a fermarlo, e vomitare piombo su un nemico praticamente immobile. Questo senza dimenticarsi lo scatto: fermando per un breve periodo lo scorrere stesso del tempo, Jack potrà spostarsi da un punto all’altro del livello “simulando” una velocità sovrumana agli occhi dei comuni mortali – l’ideale per colpire un nemico a distanza, senza incorrere in rischi eccessivi. Ciascuno dei poteri disponibili (ve ne sono un altro paio, ma preferiamo lasciarveli scoprire da soli) non potrà essere utilizzato indiscriminatamente: al contrario, la parte destra dello schermo ospita una serie di meter per ciascuna abilità, esaurito il quale sarà necessario attendere un fisiologico periodo di ricarica prima di poter tornare a far faville.

Inizialmente non sarà possibile utilizzare ciascuna skill più di un paio di volte consecutive senza incappare nel periodo di attesa; potremo tuttavia aumentare le nostre prestazioni livellando il caro vecchio Jack. I livelli pullulano infatti di sorgenti di chronon, utilizzabili come skill points in un apposito menù di crescita. Non si tratta di uno skill tree evoluto in termini ruolistici, come lecito aspettarsi da un TPS: piuttosto, sarà possibile potenziare l’abilità prescelta sino ad un massimo di tre volte, innalzando sensibilmente parametri come danno inflitto, area interessata o, come nel caso dello scudo, durata. L’impianto temporale intessuto da Remedy parrebbe dunque partire da premesse piacevoli ed interessanti, rese ancor più accattivanti dalla presenza di nemici speciali equipaggiati con uniformi a base di chronon e, solo in parte, dotati dei poteri di Jack.

Peccato che, ancora una volta, l’effetto sorpresa sia destinato a scemare più rapidamente del previsto, visto e considerato che già al termine del secondo atto si sarà visto praticamente tutto quello che c’è da vedere in termini di “gun”play. Non che sia un brutto vedere, lo ribadiamo ancora una volta: ma riservare qualche asso nella manica per le fasi finali, ad esempio, avrebbe mantenuto un po’ più alta l’attenzione sulle dinamiche shooting, che già orfane di una copertura adeguata finiscono per riassumersi rapidamente nell’utilizzo di due o massimo tre poteri (scudo e strafe in primis), risolutori di gran parte dei problemi. L’introduzione delle Stasi e dei combattimenti a tempo congelato rappresenta indubbiamente una trovata brillante e divertente, oltre che dall’incredibile impatto coreografico, ma il loro abuso è così marcato (specie dopo il primo giro di boa) e frequente che, alla lunga, perdono di consistenza – al punto che vi stupirete maggiormente nelle rare occasioni in cui laFrattura non si fa sentire. Un vero peccato, viste le potenzialità ludiche offerte da questa trovata e, per l’ennesima volta, viste le strepitose premesse iniziali.

La forza di Jack Joyce deriva direttamente dalla sua capacità di “alterare” la quarta dimensione

Le fasi combat non esauriscono le meccaniche alla base di Quantum Break, che si affida ad una componente esplorativa di matrice “platform” necessaria sia al reperimento dei numerosi collezionabili testuali, sia – e soprattutto – all’avanzamento nella storia principale. Duole dover ammettere che, nonostante i nobili intenti, proprio questa fase rappresenta il passaggio più incerto dell’intera produzione. Pur chiudendo un occhio sull’eccessivo dosaggio di sequenze scriptate (che, al di là di tutto, conferiscono il consueto appeal cinematografico al titolo, riuscendoci in modo esemplare), impossibile non accorgersi di come l’anima platform del titolo sia soltanto superficiale, con sprazzi di banalità difficilmente tollerabili da un titolo di questa portata.

Essenzialmente, i puzzle da risolvere per chiudere la famigerata Frattura si esauriscono in due tipologie distinte: quella in cui dovremo rallentare uno specifico oggetto in movimento (per lo più porte, ma anche gru e passerelle mobili) per passare alla sezione successiva, e quella in cui Jack riavvolgerà il tempo di un area circoscritta, ripristinando per brevi istanti una situazione favorevole passata – nelle fasi iniziali, a titolo di esempio, potremo ricreare una struttura di casse di legno distrutta pochi secondi prima, ma necessaria per attraversare un enorme magazzino.

Visto l’arsenale di poteri a disposizione di Jack, era più che lecito aspettarsi una fase esplorativa più profonda e articolata, che richiedesse l’utilizzo congiunto di qualche potere, più dei semplici “corri” e “rallenta il tempo” per essere superata. Il risultato è un guazzabuglio di passaggi troppo spesso uguali gli uni agli altri, dove l’unica incognita è rappresentata dal comportamento imprevedibile di alcuni elementi di scena che, in seguito alla Frattura, sfuggono alle regole standard della Stasi e rischiano di abbattere Jack con un sol colpo. Il come, in certi frangenti, è imbarazzante: anche il solo toccare uno dei suddetti elementi, prima ancora che sia attivo, può inspiegabilmente costare la vita al protagonista. Un pizzico di logica in più, in un prodotto così scientificamente rigoroso, non avrebbe certo infastidito.

Dal punto di vista tecnologico, l’ultima fatica di casa Remedy alterna risultati strepitosi da primo della classe ad altri incomprensibili e, per certi versi, quasi difficili da digerire. Non stiamo parlando del famigerato ResolutionGate e dei tanto infamanti 720p: un limite di cui, ad essere propri onesti, non ci siamo quasi minimamente accorti nel corso dei nostri due playthrough, merito anche di una serie di pregi indiscutibili e di una direzione artistica di indiscutibile livello. A farci storcere il naso sin dalle prime battute di gioco è stato il comparto animazioni, tanto dei personaggi principali quanto dei secondari, incapace di garantire una qualità costante e comune nei movimenti degli attori su schermo. Difficile non notare come le animazioni del salto o dell’arrampicata, essenziali nelle fasi a “proiettili fermi”, appaiano datate di almeno un paio d’anni rispetto al resto, o come il rag doll dei corpi in talune circostanze si affidi ad una fisica del tutto propria.

Piccole cose, certo, ma che in un quadro generale delle grande occasioni stridono in modo preoccupante e finiscono per saltare all’occhio. Anche perché, a ragion veduta, il lavoro complessivo di Remedy è sensazionale: le animazioni facciali e l’espressività dei personaggi raggiungono un livello inedito nel panorama Xbox One, così come l’illuminazione dinamica degli interni/esterni e, nonostante l’esacerbante ripetitività, la meravigliosa complessità delle scene durante le Stasi, attraversate da frattali e da altri elementi geometrici che arricchiscono il colpo d’occhio aumentando al contempo quella sensazione di “assurdo scientifico”. Quantum Break offre esplosioni volumetriche e effetti particellari di primissimo ordine, e pur ricorrendo ad un blur forse eccessivo (del resto, stiamo pur sempre giocando col tessuto temporale) è convincente e solido. Sul versante sonoro, Quantum Break è interamente doppiato in italiano.

Il lavoro di localizzazione e voice over raggiunge un livello complessivo assolutamente notevole, seppur leggermente inferiore al doppiaggio in lingua originale (che, specie in Hatch, William e Serene raggiunge livelli di inenarrabile goduria). Il che, di norma, è esattamente quanto succede ogni giorno parlando di Netflix e serie televisive: ma considerando che tutti gli “attori” in game sono attori in carne ed ossa e che la cura risposta nell’acting dei quattro episodi è esattamente la stessa che ritroverete stringendo il pad tra le mani, sotto questo fronte c’è da dormire sogni tranquilli.

Conclusioni

Quantum Break lo abbiamo aspettato in tanti. Potremmo dire anche tantissimi senza il timore di esagerare, eserciti di giocatori che avrebbero fatto volentieri di tutto pur di far passare più velocemente questi ultimi tre anni e mettere le mani su quello che, potenzialmente, potrebbe essere il nuovo franchise di punta dei ragazzi di Remedy. Non lo nascondiamo, anche le nostre aspettative di fronte a questa esclusiva Microsoft erano particolarmente alte: un annuncio in pompa magna, sequenze video (poi misteriosamente scomparse dal titolo definitivo) ad accompagnare uno dei lanci più memorabili della storia del colosso di Redmond, un marchio di fabbrica, quello Remedy, sinonimo di narrazione, giocabilità e – cosa più importante – qualità. Insomma, un successo annunciato, uno di quei blockbuster che non ha bisogno di molte parole e che, in un periodo di calma, arriva a siglare punteggi da record e infrangere ogni record di vendita.

Ebbene, l’avrete capito, qualcosa è andato drammaticamente storto in quel di Rivenport: qualcosa che difficilmente avremmo potuto prevedere soltanto due settimane fa ma che, duole ammetterlo, manda in frantumi il castello di vetro di Joyce e soci catapultando Quantum Break dai comodi scranni dell’Olimpo al reparto “Grandi Occasioni Sprecate“. Perché è vero, il potenziale stavolta non mancava affatto.Il problema più grande di Quantum Break, alla fine della fiera, è forse la superficialità. Il dare per scontato anche le piccole cose, come alcune animazioni spaventose, un design dei nemici non eccessivamente vario o un feel delle armi da fuoco ai limiti dell’impalpabile – che le rende di fatto tutte omologhe e prive di personalità – che si affianca a mancanze più gravi in termine di meccaniche videoludiche, che trovano la massima manifestazione in una componente esplorativa tutto tranne che memorabile e in un gunplay divertente che smette di stupire poco dopo l’inizio e, alla lunga, vincola sempre alle medesime esecuzioni.Remedy si concentra sulla storia, e ne esce una narrativa articolata a cui la componente televisiva regala man forte: un risultato significativo, che non riesce tuttavia a sollevare le carenze quando si stringe il pad tra le mani.

L’introduzione dei bivi decisionali e gli influssi di questi sulla narrativa complessiva cercano di movimentare ulteriormente la vicenda, ma pur raccontando una buona storia Remedy stupisce fino ad un certo punto, tirando quasi il freno proprio quando le circostanze avrebbero richiesto il contrario. Un set di scelte limitate per degli eventi completamente imprevedibili: ottimo in termini di rigiocabilità, laddove il primo playthrough ha richiesto poco più di 7 ore per una percentuale di completamento pari all’88%. Ma rimane sempre quella sensazione di incompletezza, quel convincimento che qualcosa in più sotto tutti i punti di vista avrebbe potuto essere stato fatto.

Quantum Break rimane un buon action in terza persona, con tanta scienza dentro e una buona storia da raccontare: ma non è il Quantum Break che ci aspettavamo. Di TPS più completi, sia in termini di sceneggiatura che di giocabilità, ce ne sono parecchi: e non servono incredibili poteri temporali per trovarli.