Ironicamente parlando, anche se c’è ben poco da ridere in Resident Evil 7, questo sarebbe il perfetto jingle d’accompagnamento per la nostra prima, vera immersione nell’orrore che apre le porte a un nuovo approccio per la pluri-premiata saga survival horror; finora siamo stati abituati alle demo, che ci hanno scortato a piccolissimi passi nell’incubo di Ethan, ai mini video virali con cui Capcom stuzzica la nostra curiosità e al tempo stesso ci offre un breve sguardo del gameplay e dei personaggi che costituiscono la narrazione, ma quella di martedì è stata la prova del fuoco. Pad alla mano e cuffie, abbiamo sviscerato una piccola parte di questo nuovo titolo e siamo pronti a offrirvi tutti i dettagli senza spoilerarvi la storia… della quale rimaniamo comunque molto all’oscuro.
Prima, però, una doverosa precisazione. O un consiglio, se lo preferite. Quando giocherete, fatelo togliendovi dalla testa qualsiasi idea sul fatto che andrete a vivere un’esperienza come Shinji Mikami ci ha abituato negli anni che furono: Resident Evil 7 non è un Resident Evil nel senso classico del termine e chi vi scrive lo riconosce senza alcuna acrimonia. Si è parlato tanto di questo capitolo come un ritorno alle origini e narrativamente parlando, per quanto abbiamo potuto vedere, è così, con atmosfere che ricordano molto Resident Evil 4 (una vera rivoluzione nel franchise) per scivolare a tratti verso il capostipite della serie; chiunque si aggrappi a questo concetto, a un agognato ritorno alle origini, deve tuttavia essere conscio quanto ciò valga anche e soprattutto per il gameplay – altrimenti sarebbe un non-ritorno, fatto di una selettività soggettiva e nostalgica.
Perché tornare indietro vorrebbe dire introduzioni trash anni ’80, camera fissa, mira inaffidabile. Elementi ottimi nei loro anni ma che non possono incatenare una saga e impedirle, rischiando e sperimentando, di evolversi.
Detto questo, Resident Evil 7. Lo starter pack del nostro hands-on era completo: c’era la famiglia dalle discutibili abitudini alimentari e la carenza di sedute dallo psicologo (posto non se lo siano mangiato), la zia in sedia a rotelle la cui utilità è stata inquietarci o farci perdere qualche battito, il disgusto e la malattia che permeavano ogni punto sul quale posavamo gli occhi. E noi, ovviamente. Nei panni di Ethan, in cerca della moglie creduta morta e poi riapparsa, catturato da questi sconosciuti per ritrovarsi in una situazione inconcepibile, un circo dell’orrore da cui uscirne vivi o anche solamente interi non sarà affatto semplice.
Resident Evil 7 non è un Resident Evil nel senso classico del termine
Il nostro rifiuto a mangiare fa dare di matto a Marguerite e indispone, per usare un eufemismo, Jack. Tutti lasciano la stanza, tranne la zia. C’è poco tempo, l’uomo ha promesso di tornare: un’arma, ci serve un’arma. Iniziamo a guardarci in giro ma capiamo in fretta come la difesa sia l’ultimo dei nostri problemi, se non abbiamo una via d’uscita; eccoci allora esplorare ogni stanza e ogni corridoio, memorizzare possibili enigmi, strade e cassetti chiusi a chiave per farci ritorno in seguito, perché è nella nostra natura di gamer non lasciare nulla indietro. Ma Jack è di parola e presto lo vediamo tornare, ben intenzionato a insegnarci a suon di badilate come non ci si debba alzare da tavola prima di aver finito – è uno scontro impari che lascia la fuga come unica scelta, eppure sembra non esserci un percorso sicuro, a meno di non voler cercare qualcosa che stoni nell’insieme. Un passaggio nascosto, di cui la casa non pare sprovvista.
Momentaneamente tranquilli, dire al sicuro sarebbe esagerato, ci concediamo qualche secondo per analizzare la situazione: siamo prigionieri, indifesi e una delle poche certezze che abbiamo è di non doverci mai separare dal nostro Pebble Codex (eh sì, si tratta proprio di un Pebble Time 2 ndr.), l’orologio digitale al polso che non sembra limitarsi solo a segnalare lo stato di salute; giusto il tempo di raccogliere i pensieri ed ecco che il telefono squilla, ricordandoci con non poca tensione le conseguenze nella demo quando si rispondeva a una chiamata. Alziamo la cornetta ed ecco la misteriosa voce femminile cui siamo abituati, ci dice che la nostra priorità è fuggire ma gli ingressi normali non devono piacere ai personaggi Capcom, perché dalla libertà o presunta tale ci separano chiavi sparse lungo tutta la villa. Ovviamente. Viene da chiedersi se i residenti facessero ogni giorno questa fatica per uscire e andare al lavoro, intanto cominciamo la ricerca. Con il buon vecchio Jack alle calcagna.
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I nemici che non vogliono decidersi a morire sono una ricorrenza in Resident Evil, con l’aggravante in questo caso di venire a cercarci dopo essere risorti, senza avere il buon gusto di restarsene fermi dove li avevamo lasciati. Queste “cattive abitudini” sono tuttavia bilanciate da alcuni elementi ricorrenti ben più apprezzati, come il fucile a pompa – potete vederlo nel primo screen, è stato un po’ come ritrovare un vecchio amico – o le stanze di salvataggio, con la loro musica rassicurante e il baule delle necessità, in cui accatastare tutti quegli oggetti che, con dodici spazi nell’inventario, possono presto diventare di troppo. Se gli slot a disposizione possono sembrarvi un lusso, sappiate che ogni oggetto scartato sarà perduto per sempre. Bisogna essere oculati nelle proprie scelte, laddove non si possa o non si abbia voglia di tornare al primo baule disponibile e considerata la brutta situazione, spesso la migliore difesa è proprio l’attacco.
Tornando a Jack, che ci perdonerà la breve digressione, essere armati al nostro secondo incontro non deve renderci troppo confidenti. Quando possibile, la fuga è sempre la soluzione migliore in termini di risparmio, sia esso di munizioni o cure (rappresentate dall’iconica erba verde, chimicamente trasformabile in unità curative più potenti), perché nonostante la zona sia priva di apparenti minacce, o forse per questo, potremmo ritrovarcele dove meno ce lo aspettiamo. Lo scontro decisivo arriva per tutti e il nostro pater familias non si esime dal volerci decapitare con un paio di motoseghe unite fra loro per l’occasione. Se c’è però una cosa che accomuna i personaggi di Resident Evil 7 è l’incertezza del loro destino: poco importa aver visto Jack morire, perché qualsiasi cosa l’abbia infettato non sembra voler lasciare la presa sul suo corpo tanto presto. Lo stesso per Marguerite, l’antagonista principale nella seconda metà della partita.
Nessun mondo da salvare, siamo solo noi e la nostra sopravvivenza.
Tirando le somme, questo nuovo capitolo, al di là di una risoluzione non propriamente eccelsa (che pure non infastidisce) e un linguaggio forse ancora un po’ acerbo per quelle che potrebbero essere le sue intenzioni, ovvero un nuovo modo di raccontare l’orrore, difficilmente può essere paragonato alla saga madre perché si presenta come altro: migliore o peggiore è troppo presto per dirlo, soprattutto per lo spartiacque che Resident Evil 7 pone, ma le potenzialità ci sono e si sentono. La compatibilità con VR, che purtroppo non abbiamo potuto provare, potrebbe rivelarsi poi la chiave di volta perché questo gioco si scavi la propria nicchia specie nel subconscio degli utenti: assottiglierà la parete tra realtà e finzione per rendere l’esperienza, ne siamo sicuri, difficile da sostenere.
Tecnicamente parlando, è il sonoro a farla da padrone in questo settimo capitolo. Visivamente l’ambiente è grottesco e disgustoso, né potevamo aspettarci di meno, ma è l’audio a portare la tensione al perfetto livello, accompagnando il nostro cammino con scricchiolii, sussurri, rumori mollicci di cui non vogliamo davvero conoscere la provenienza e che ci hanno spesso fatto storcere la bocca all’idea; come abbiamo detto all’inizio, si respira malattia, corruzione, quasi fosse un soffocante sudario che implacabile ci avvolge fin dai primi minuti. Se non possedete il VR ma cercate comunque l’immersione, le cuffie sono un must.
La grafica non è al suo massimo ma non è voluta mancare la cura per i dettagli nel presentarci il completo abbandono delle due case in cui ci siamo trovati a vagare. Soprattutto, non inficia in alcun modo un gameplay fluido, privo di forzature narrative e con un paio di aggiunte che ai nostri occhi l’hanno valorizzato. Prima di tutto la possibilità di difendersi. Premendo il tasto giusto al momento giusto, Ethan potrà incrociare le braccia davanti a sé o frapporre l’arma che sta impugnando: la forza dell’impatto varia da caso a caso e proteggersi non annulla in toto il danno, tuttavia rende più difficile ai nemici sopraffarci e alle volte può persino concederci quel vantaggio di cui avevamo bisogno. L’occasione giusta per averne conferma sono gli incontri con Jack, in particolare quello finale.
Il secondo punto d’onore è, almeno fin dove abbiamo giocato, l’assenza di metagaming. In Resident Evil 7 il giocatore è costretto ad abbandonare la sua onniscenza e diventare un tutt’uno con il protagonista, accettando l’idea del “non vedo, dunque non conosco”. Se Ethan non verrà messo visivamente a conoscenza di un dettaglio, l’utente non può imporgli di fare nulla perché non lo sa – e noi, come già detto, siamo lui. Soli. Abbandonati a noi stessi. Limitati. Non c’è nessuna quarta parete da sfondare per parlare al personaggio e dirgli “so che è così, credimi!”, si fiderà solo di quanto potrà vedere con i propri occhi.
Una menziona va infine fatta al doppiaggio italiano. Dopo l’infelice esordio su Resident Evil 6, qui ha subito un’impennata mostrandosi azzeccato e godibile. Non è più la storia del buono (Chris, Leon, Claire…) contro il cattivo, non c’è nessun Wesker a reclamare il suo diritto a essere un dio fra gli uomini, nessun mondo da salvare indossando la lorica dell’eroe mentre si affronta il male imbracciando un fucile a canne mozze. Siamo solo noi e la nostra sopravvivenza.