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Return to Monkey Island – Recensione

Return to Monkey Island non è un viaggio per deboli di stomaco. Certo, si naviga per mari tra onde altissime ed orizzonti in cui non si scorge mai la terra ferma, ma non c’è intenzione di tratteggiare una raffinata e trasognante figura retorica. L’avviso è ben lontano dall’essere ideale ed astratto.

L’ultima fatica di Ron Gilbert, ma anche di Dave Grossman nuovamente chiamato al ruolo di co-sceneggiatore, è un autentico rollercoaster emotivo, un vascello che navigando tra le pieghe del tempo solo apparentemente riavvolge le lancette dell’orologio. La destinazione finale dell’ennesimo viaggio di Guybrush Threepwood, difatti, non è il passato. Tracciando un cerchio perfetto, in cui punto di partenza e destinazione combaciano, ci si scopre trascinati, quasi controvoglia, in un presente che puzza di nostalgia ammuffita, di infantilismi anacronistici, di romanticismo avariato.

Ed è proprio questo a rendere Return to Monkey Island un’avventura grafica sublime, sopraffina, sofisticata.

Senza entrare troppo nei dettagli, che potrebbero riservare qualche involontario ed indesiderato spoiler, l’epopea si apre con un secco colpo di scena, che concorre a posizionare temporalmente questo capitolo subito dopo LeChuck’s Revenge. Da questo punto di vista, non mancano piccole incongruenze e paradossi con gli altri episodi della serie, idealmente ambientati successivamente cronologicamente parlando, ma si tratta di piccole e superficiali sviste, tra l’altro assolutamente funzionali ad un racconto che, sin dalle prime battute, si pone un unico, grande obiettivo. Del resto, dal primo Monkey Island sono passati più di trent’anni, un’era geologica, quasi, non solo per l’industria videoludica, ma anche a livello personale. Sono cambiate le piattaforme e i modi con cui si fruiscono i videogiochi; siamo cambiati anche noi, Ron Gilbert compreso.

Return to Monkey Island Ron Gilbert Blog

Nel tornare a scrivere di pirati, isole misteriose e improbabili tesori su cui mettere le mani, lo sceneggiatore americano, come già anticipato poco sopra, ha ben deciso di creare una storia leggibile su più livelli. In quello più superficiale, c’è il Monkey Island che tutti conosciamo, generoso di siparietti comici ed ironici, per quanto, anche sul fronte dei puzzle proposti, meno propenso a battere sentieri fin troppo surreali. Soprattutto i fan di lungo corso, tuttavia, non tarderanno a scorgere ben altro in questo “ritorno”.

Guybrush Threepwood, almeno quanto la sua nemesi, che immancabilmente torna anche in questo capitolo, sembra il classico protagonista in crisi di mezza età, incastrato in abitudini che non riesce ad abbandonare, solcare i mari in cerca di improbabili avventure appunto, ma che sono chiaramente fuori tempo, ancorate ad un contesto che non esiste più.

A fare da contraltare alle puerili ambizioni del nostro, un mondo che, intorno a lui, è completamente cambiato. Mêlée Island non è identica dal punto di vista architettonico, eppure pullula di vecchi negozi ora chiusi, è visibilmente degradata, ha chiaramente perso il suo carattere genuinamente rustico. Elaine e Carla hanno dato una svolta alle loro vite. Persino visitatori ed abitanti dell’isola sono stati rimpiazzati da una nuova generazione di bucanieri e filibustieri che contribuiscono a rendere tanto diverso il mood e l’atmosfera tra strade e quartieri solo all’apparenza identici al passato.

Si ride, e spesso. Ancora più spesso ci si ritrova a biasimare la nostalgia, l’incapacità di andare oltre, l’innata propensione alla ripetizione

Ron Gilbert, in sostanza, gioca con il suo pubblico, rendendo il giocatore di vecchio corso una sorta di avatar di Guybrush Threepwood. Esattamente come il non più giovane pirata è intrappolato in una routine ormai ridicola, l’utente è ancora in cerca delle stesse emozioni, dello stesso divertimento provato trent’anni addietro. Return to Monkey Island è estremamente meta, critico con sé stesso, con un genere che non ha conosciuto chissà quali evoluzioni nel corso del tempo, con i fan, che volevano la stessa identica cosa, al punto da insorgere e criticare un art design diverso, inaspettato, per nulla allineato alle loro aspettative e all’originale.

Si ride, e spesso. Ancora più spesso ci si ritrova a biasimare la nostalgia, l’incapacità di andare oltre, l’innata propensione alla ripetizione. Return to Monkey Island è semplicemente geniale per come riesce a coniugare le due facce della stessa medaglia, per come riesce a sollazzare i neofiti e pugnalare al cuore, dolcemente e con il sorriso beninteso, gli appassionati di lungo corso.

Del resto, il gameplay è lo stesso di sempre, con qualche apertura graditissima al grande pubblico. Grazie ad un comando attivabile in qualsiasi istante si rendono visibili tutti gli elementi dello scenario con cui è possibile interagire. Un apposito menù, anch’esso totalmente facoltativo, fornisce indizi sempre più precisi per la risoluzione dell’enigma di turno. La modalità assistita elimina quasi completamente la sfida, permettendo, a chi lo preferisce, di godersi esclusivamente la storia, senza alcuna interruzione o grattacapo.

C’è da dire, tuttavia, che Return to Monkey Island è un’avventura grafica sostanzialmente semplice, che solo in un paio di passaggi, in modalità standard, offre puzzle veramente degni di nota, in grado di impensierire i più navigati.

A proposito del sopracitato art design, anche in questo senso Ron Gilbert e il suo team hanno chiaramente optato per uno stile più digeribile dal grande pubblico e, soprattutto, più facilmente adattabile a display di diversa dimensione, non a caso il gioco è disponibile anche su Nintendo Switch. Forse la pixel-art avrebbe fatto felici i più nostalgici, forse uno stile più dettagliato avrebbe meglio figurato su pannelli di grandi dimensioni. Di certo, fattaci un po’ l’abitudine, un po’ come accadde con The Legend of Zelda: The Wind Waker in altri contesti e in altri tempi, ci si innamora follemente dell’espetto estetico del gioco.

Conclusioni

Return to Monkey Island manca la perfezione solo per l’assenza di qualche puzzle davvero geniale in più.

Per il resto siamo di fronte al grande ritorno di una saga che ci era mancata tantissimo, un ritorno che tuttavia non va affatto preso sottogamba e che potrebbe far storcere il naso a qualche fan di lungo corso. La tendenza all’autocritica e alla critica al genere e all’utente stesso, potrebbero essere intromissioni al registro solitamente ironico e comico, che pur non manca affatto, che potrebbe non incontrare le simpatie di tutti.

L’apertura ad un pubblico più ampio, testimoniata dalla presenza di una modalità assistita; l’ottimo art design, che tuttavia va inizialmente digerito; una longevità accettabile, siamo sulle nove ore circa, completano il quadro di un’avventura grafica piacevolissima, divertentissima, dolcemente malinconica.

 

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