Reveil – Recensione

Sulla carta, di prodotti come Reveil ne sono usciti a bizzeffe nell’ultimo periodo. Pur con percentuali variabili di horror e thriller nella formula complessiva, di avventure in prima persona fatte di level design lineari, enigmi e ambientazioni inquietanti ne abbiamo affrontate diverse.

Con la sicurezza di chi è stato forgiato dal fuoco di mille titoli del genere, insomma, ci siamo approcciati a Reveil comunque curiosi di scoprire cosa avesse da offrirci e in che modo volesse distinguersi dall’agguerrita e affollatissima concorrenza.

Come abbiamo già avuto modo di suggerire, il discriminante non va certo ricercato nel gameplay in sé e per sé. Anche Reveil, difatti, propone una formula già vista decine di altre volte, ma non per questo meno efficace o funzionale all’obiettivo che si pone la creatura di Pixelsplit. Ciò significa che non dovrete avere chissà che manico con il pad per giungere ai titoli di coda.

Fatto salvo per un paio di brevissime sessioni, dove sarete braccati da alcune creature mostruose, e voi dovrete cercare di raggiungere la meta senza farvi scoprire, l’abilità con il pad richiesta rasenta lo zero. Il gioco si snoda in un unico percorso, aprendosi ad una blandissima esplorazione solo in rare occasioni assolutamente circoscritte. Queste variazioni sul percorso sono utili per scovare alcuni dettagli utili ad inspessire ulteriormente la trama e poco altro, ulteriore segno che tutta l’attenzione di Reveil è incentrata sulla trama.

L’unica nota di colore della produzione, se così possiamo definirla, riguarda la risoluzione degli enigmi, uniche parti in cui il gioco è in grado di offrire un minimo di sfida. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di puzzle risolvibili con un po’ di spirito d’osservazione. Un cavo che conduce al generatore, una serie di leve che vanno azionate con una ben definita successione, una combinazione di numeri che va recuperata interagendo con lo scenario e comprendendo il linguaggio cifrato di un documento reperito in loco. Il tono e il livello medio degli enigmi che vi sbarreranno puntualmente la strada sono questi, più o meno. Nessuno si è rivelato particolarmente originale o intricato, ma in generale il livello di sfida ci è parso consono e in armonia con il flusso e la progressione dell’avventura.

Reveil, del resto, vive per e della sua trama, fulcro attorno cui si sviluppa ogni altro ambito della produzione che, per la cronaca, vanta una grafica al passo con i tempi e una gestione del sonoro all’altezza della situazione, soprattutto quando, nelle fasi più orrorifiche, la tensione scaturirà soprattutto da rumori appena percettibili provenienti da tutte le direzioni.

Il titolo di Pixelsplit, del resto, non può propriamente definirsi un horror. Non manca qualche jump scare, ovviamente, né sono così rare le situazioni in cui il cuore vi batterà in gola, ma rispetto al più recente Silent Hill: The Short Message, solo per citare un congenere recente, l’avventura in questione è molto meno spaventosa, ma non meno inquietante. Anzi.

Protagonista della vicenda Walter Thompson, gestore di un circo in cui lavora anche sua moglie e, soprattutto la figlia Dorie. Ambientato negli Anni ’80, il gioco getta immediatamente luci inquietanti sulla piccola di casa, chiaramente costretta ad una vita di privazioni per poter reggere il ritmo degli allenamenti a cui si deve quotidianamente sottoporre per la perfetta riuscita del suo numero. Quello che sembra un normalissimo pomeriggio in famiglia, si tramuta immediatamente nell’esplorazione della psiche alterata del protagonista, epopea incastrata in un loop da cui sembra impossibile uscire.

Didascalico e metaforico al punto giusto, il comparto narrativo riesce da solo a sorreggere l’avventura

Non è certo la prima volta che in un videogioco siamo chiamati ad immmergerci il subconscio di un personaggio, ma Reveil svolge il suo compito con maestria e coraggio sotto questo profilo. Tanto per cominciare gli scenari che esplorerete sono sinistri e zeppi di figure allegoriche come è giusto che sia. Non è difficile leggere tra le righe sin da subito, nel tentativo di ricostruire la situazione famigliare di Walter ancor prima che la trama sveli e palesi certi passaggi.

Il ritmo della narrazione è perfetto. Offre al videogiocatore numerosi indizi per sciogliere il mistero che avvolge la famiglia del protagonista, ma da una parte li conferma appena prima di diventare ovvi, dall’altra li disattende con colpi di scena d’effetto, capaci di sorprendere e scioccare. Soprattutto il finale saprà scavare un bel ricordo nella vostra memoria. O meglio: i finali. Reveil propone cinque diversi epiloghi, alcuni dei quali davvero difficili da scovare a seconda di se e come risolverete degli enigmi facoltativi.

Almeno un paio di questi finali, tra l’altro, sapranno lasciarvi a bocca aperta, presentando un plot twist assolutamente impronosticabile.

Pur con un solo personaggio realmente sulla scena, la trama di Reveil compie magistralmente il suo dovere. Didascalico e metaforico al punto giusto, il comparto narrativo riesce da solo a sorreggere l’avventura e persino a infondere un tenue replay value all’esperienza che tuttavia si consuma in non più di quattro ore.

Conclusioni

Nel panorama dei così detti walking simulator, Reveil sa il fatto suo. L’avventura thriller dalle vaghe tinte horror di Pixelsplit non cambia di una virgola una formula di gioco cavalcatissima sin dai tempi di Everybody’s Gone to the Rapture.

Si procede lungo un percorso prefissato, si cercano indizi nell’ambientazione, si risolvono enigmi, a volte ci si nasconde da una presenza inquietante. Non si può giudicare Reveil per il suo spessore ludico ovviamente, sebbene qualche puzzle dimostri un minimo di inventiva.

L’epopea psicologica di Walter soddisfa per come la trama si sviluppa e si spiega di fronte all’utente. Mai banale, mai troppo criptica, la narrazione di Reveil è sufficientemente efficace da rendere il titolo consigliatissimo a chi ama il genere.

La scarsa longevità e un gameplay fin troppo flebile, tuttavia, lo rendono un prodotto settoriale, che interesserà un ristretto numero di videogiocatori. Il che non è per forza un male.

 

 

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