Perché mettere dei confini a ciò che può essere un videogioco?
L’estetica, da non confondere con l’estetismo, è una branchia della filosofia. Si occupa di definire e classificare l’arte, sforzandosi il più possibile di identificare ciò che possa ritenersi bello. Si tratta, in soldoni, di una causa persa, una questione irrisolta e irrisolvibile che si alimenta costantemente della sua stessa messa in discussione. Sebbene molti abbiano tentato di fornire risposte solide e intoccabili, alcuni dei quali con un ardore e una meticolosità tale da influenzare persino lo sviluppo dell’arte stessa, si pensi a Benedetto Croce per esempio, oggigiorno l’idea di una resa, per quanto combattiva beninteso, è comunemente accettata. Si tenta ancora di distinguere l’arte da tutto il resto, nella consapevolezza che sia sostanzialmente un pur utilissimo e imprescindibile esercizio di stile.
Fatte queste dovute premesse, non desta alcuna sorpresa constatare che la discussione estetica in campo videoludico sia particolarmente aperta e accesa. Del resto, parliamo di un medium di cui è difficile individuare con esattezza i contorni. Sappiamo come è fatto un quadro. Possiamo facilmente indicare una statua quando ce la troviamo di fronte. Pochi avrebbero difficoltà a definire le caratteristiche costituenti di un film. Ma per quanto riguarda i videogiochi?
La recente polemica esplosa all’indomani dell’esordio sul mercato di Senua’s Saga: Hellblade II, che potete acquistare in formato digitale da GameStop, parla sostanzialmente da sola e, da un certo punto di vista, palesa ed esplicita una certa incapacità nel saper gestire il dialogo su questo fronte da parte di utenza e addetti ai lavori.
Il punto fondamentale della discussione, nel valutare le qualità della creatura di Ninja Theory, è individuabile nel grado di interattività richiesto al gioco per essere portato a termine. I detrattori, o in generale coloro che non sono rimasti stregati dall’avventura di Senua, sostengono che è difficile parlare di videogioco quando c’è poco altro da fare, se non seguire l’unico percorso prefissato sino ai titoli di coda. Dall’altra parte della barricata, invece, si sono schierati tutti coloro che hanno apprezzato la direzione artistica, lo strepitoso lavoro di sound design, la trama.
Come in ogni questione ci sono dei fattori oggettivi che non è possibile ignorare. Siamo indubbiamente di fronte ad una produzione che mette sulla bilancia valori produttivi di tutto rispetto. Per quanto ci si possa annoiare nel corso dell’avventura, è innegabile che tecnicamente la produzione Microsoft rappresenti uno dei picchi più alti mai visti su un PC o su una console. Anche in termini di sonoro è stato fatto un lavoro assolutamente convincente e, sebbene il giudizio diventi sicuramente più controverso e opinabile, la sceneggiatura propone spunti interessanti.
Ci sono insomma dei fattori che innegabilmente e oggettivamente comprovano la qualità di fondo di Senua’s Saga: Hellblade II. Si può comunque trovare sgradevole il design della protagonista e del mondo che la circonda, difficile entrare nel merito del gusto estetico del singolo, ma su determinati fattori è impossibile non trovare terreno comune.
Il nostro passatempo preferito si è sviluppato nelle forme che conosciamo oggi proprio perché è sempre andato al di là dei suoi confini
Detto questo, resta aperta la questione legata al gameplay, alla percentuale di interattività della produzione, all’essenza stessa del titolo di Ninja Theory. Per come molti utenti e parte della stampa specializzata hanno affrontato il discorso in merito, rapportando poi il tutto al giudizio sul gioco stesso, la questione è tutt’altro che secondaria. Tanto più se si considera che non è la prima volta che viene messa in discussione l’immanenza di un’opera digitale che prevede un certo grado di interazione.
Già ai tempi di Heavy Rain, ma anche di Everybody’s Gone to the Rapture, Nintendogs ed Electroplankton, in molti misero in dubbio l’utilizzo del termine videogioco. Del resto, se i propri termini di paragone sono i vari Space Invaders, Tetris, Pac-Man e Donkey Kong, giochi di puro gameplay insomma, va da sé che il giudizio sulle opere citate poco sopra non può che essere poco incline ad accettarne la loro inclusione nel medium videoludico.
Eppure, da un punto di vista estetico, soprattutto dopo la stagione della Neo-fenomenologia varata, almeno in Italia, da Luciano Anceschi, uno dei primi ad affermare chiaramente che l’arte è indefinibile per definizione (scusate il gioco di parole), a ben vedere cosa sia o non sia un videogioco è un problema di chi si pone la domanda, non certo del videogioco stesso.
Pensateci bene. Il nostro passatempo preferito si è sviluppato nelle forme che conosciamo oggi proprio perché è sempre andato al di là dei suoi confini. Confini di genere, di tematiche, di art design, di concept, di gameplay. La sua costante mutevolezza ci ha permesso di sperimentare piattaforme persistenti, esperienze in realtà virtuale e anche avventure dal taglio cinematografico, visual novel tutte da leggere, piccoli rompicapi dalla durata di una manciata di secondi.
Cosa fa di un videogioco, un videogioco quindi? L’interazione è sicuramente un fattore che, pur con diversa intensità e percentuale rispetto all’opera globale, non può mancare. Diventa quindi fondamentale anche definire e capire cosa sia l’interazione.
Perché non c’è solo il saltare, lo sparare, il creare la build che si adatti alla perfezione ad ogni boss incrociato sul cammino. Interagire significa anche scegliere con quale ritmo avanzare sul sentiero più lineare dell’universo dei videogiochi. Significa restare fermi per tutto il tempo che si vuole di fronte allo stesso panorama. Significa chiudere gli occhi e ascoltare le voci che sussurrano nella testa di Senua, per quanto tempo si vuole, per cercare di immedesimarsi nella protagonista. E queste semplicissime azioni, poco e pur comunque interattive, non si possono svolgere con un film, né con un video di gameplay fruito su YouTube.
I videogiochi sono anche il frutto di una scelta continua e costante, che ci permette di andare ad amalgamare un’esperienza in ogni caso unica, diversa da quella di chiunque altro. Ed è forse questa l’unica vera caratteristica che definisce e distingue un videogioco da ciò che non lo è.
Anche e soprattutto per questo, discutere se Senua’s Saga: Hellblade II sia o meno un videogioco è più un problema di chi pone la domanda e non dell’opera di Ninja Theory di per sé.
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