Quanti team di sviluppo sulla faccia della terra oserebbero mai piazzare un doppiosenso grande quanto una casa nel nome dello sboccacciato protagonista del proprio gioco? Con molta probabilità, gli stessi che, dopo aver riportato in auge una vecchia gloria dello sparatutto in prima persona con un’esperienza altrettanto grezza, brutale e diretta, decidono, per il seguito, di mescolare quasi totalmente le carte in tavola.
Il coraggio di Flying Wild Hog non sta, insomma, nell’aver semplicemente infarcito di battutacce il suo Shadow Warrior 2 (attualmente esclusiva PC, ma in arrivo anche su Xbox One e PS4): di operazioni come quella messa in piedi dal talentuoso team polacco, supportato da quei punk svalvolati di Devolver Digital, non se ne vedono poi molte di questi tempi, e proprio per questo va apprezzata, nonostante l’esito non proprio stellare. Non che Shadow Warrior 2 sia un brutto gioco: tutt’altro. Ma la spropositata ambizione che lo sorregge non è sufficientemente resistente.
Tutto ha inizio 5 anni dopo le vicende del primo Shadow Warrior: le imprese del nostro eroe Lo Wang non hanno impedito ad orde di demoni ripugnanti di trasferirsi in pianta stabile sulla Terra, e per guadagnarsi da vivere, il protagonista è costretto a svolgere dei lavoretti per la Yakuza. Durante una normalissima missione, iniziata a bordo del suo fido bolide e con del sano rock anni 80 sparato a volumi inauditi nelle orecchie, qualcosa va tremendamente storto: senza entrare troppo nei dettagli, ci limitiamo a dirvi che la missione principale ha a che vedere con la figlia del boss (oltre che l’ex-capo del protagonista, Orochi Zilla). Il suo corpo infetto e la sua anima corrotta non vanno più molto d’accordo, e in attesa che quest’ultima venga purificata, lo spirito di Kamiko, brillante ed intelligente, quanto capricciosa, viene momentaneamente collocato nella testa del protagonista.
Il resto non è nulla di memorabile, tra contatti con la malavita, teste parlanti, divinità e demoni vari, il tutto proposto un po’ frettolosamente, ma questa soluzione in particolare, à la Grillo Parlante, dà adito a battute, battibecchi e siparietti di ogni genere, e va a calcare la mano sulla peculiare personalità di Shadow Warrior 2, stracolmo di dialoghi sopra le righe, offese gratuite a tutto e tutti, citazioni più o meno evidenti, e tanta, sana, cattiveria, sputata una frase dopo l’altra dalla (genuinamente e volutamente fastidiosa) voce di Lo Wang, non senza una certa ripetitività di fondo che, alla lunga, rischia di rendere un pelo insopportabile questo super-ninja sovrumano.
Lo definiamo così non solo perché la sua arma preferita è una katana, e, tra un umano e l’altro, è costretto ad affrontare orribili creature di un’altra dimensione, ma anche perché può correre velocemente, scattare in tutte le direzioni con agilità felina, e progredendo nell’avventura, otterrà l’accesso a poteri sempre più incredibili, dall’invisibilità momentanea ad esplosioni di energia di ogni genere, da potenziare salendo di livello e utilizzando saggiamente i punti abilità ottenuti, fino alla Shadow Fury, un breve momento di ultra-potenza in cui lo schermo diventa rosso, e l’attacco e la difesa del nostro schizzano alle stelle.
Shadow Warrior 2 è stracolmo di dialoghi sopra le righe, offese gratuite a tutto e tutti, citazioni più o meno evidenti, e tanta sana cattiveria, sputata una frase dopo l’altra
Come anticipato, Shadow Warrior 2 si discosta dal suo diretto predecessore: è una sua evoluzione, con un’idea ben precisa dietro, e che abbandona gli stilemi sin troppo fissi dell’FPS vecchia scuola, preferendogli la deriva moderna, cooperativa e pesantemente contaminata, strizzando l’occhiolino a quella splendida (per chi scrive, s’intende) serie chiamata Borderlands. Quello creato da Flying Wild Hog è un figlio metallaro e ribelle della gemma di Gearbox, tutto sangue e demoni, smarritosi però lungo la via, tra concerti e birre scadenti da Discount. Le novità rispetto al passato, in compenso, sono davvero ben gradite, perché donano all’esperienza tutto un altro respiro, estendendone drasticamente la longevità e impreziosendola con una certa libertà, sempre più richiesta dai giocatori.
Lo Wang sale di livello e potenzia le skill ottenute svolgendo le missioni (o lootate da bauli e boss), un valore necessario per un’altra importante novità, ovvero la modalità coop fino a 4 giocatori, tarata sul livello degli stessi. Le orde di nemici verranno infatti bilanciate in base al loro numero e al loro livello, costringendo così gli utenti, in fase di matchmaking, a dover cercare pane per i loro denti, pena, un tasso di sfida altissimo (ma premi più ricchi). Peccato che il netcode instabile complichi un po’ troppo la vita, finendo con lo stufare e facendo tornare ad affrontare la campagna in single player, comunque godibilissima, seppur non ben bilanciata, almeno al livello normale da noi testato.
Poche, pochissime volte ci è capitato di morire, nonostante il caos totale degli scontri, rigidi e meccanici, quanto confusionari, ben lontani dalle danze fluide e mortali dell’ultimo Doom, per fare un paragone (francamente un po’ scomodo, lo ammettiamo). Merito (o colpa) della mole di nemici che appare su schermo, in un’orgia di sangue, morte, sbudellamenti e mutilazioni (rese con precisione e impattanti sul comportamento dei mob), vera e propria carne da macello non troppo astuta, dai pattern abbastanza prevedibili, che pare messa lì solo per custodire del delizioso loot, proprio come in Borderlands, o in Diablo, per citare un’altra lootfest. La colpa, in parte, è anche del nuovo sistema di gestione delle armi, per certi versi croce e delizia di Shadow Warrior 2: l’arsenale a disposizione è infatti vastissimo, ricco di armi dal feeling ottimo, tra katane, mitragliatori, fucili a pompa, archi, motoseghe, e più ne ha più ne metta, truculenti mezzi di distruzione con cui squartare in due e riempire di pallottole ogni creatura presente su schermo, trasformando ogni incontro ravvicinato in un bagno di sangue.
Quello creato da Flying Wild Hog è un figlio metallaro e ribelle di Borderlands
La vera novità sono però le mod, sconfinate e trovate in maniera totalmente casuale, ognuna con dei bonus specifici, quasi unici (in particolare quando si tratta di quelle più rare, come quelle dorate), che vanno ad influenzare danni, resistenze, ma anche punti vita e punti Chi, il mana di Lo Wang (necessario per attivare i poteri già citati, che includono anche la fondamentale cura), fino a donare poteri elementali alle stesse. Fuoco, ghiaccio, tuono e veleno, oltre a cambiare l’aspetto dell’arsenale, si rivelano di una certa importanza durante le battaglie, soprattutto con le versioni speciali (e generate proceduralmente come gran parte degli elementi del gioco) dei singoli mostri e i mid-boss incrociati casualmente tra una missione e l’altra, ognuno con resistenze e debolezze specifiche (indicate semplicemente puntandogli l’arma contro).
Il problema è che sono talmente tante, e dai valori talmente disparati, da costringere il giocatore a spulciare tra decine, se non centinaia, di modifiche fresche di raccolta dopo ogni missione o scampagnata, spezzando il ritmo forsennato dell’azione; inoltre, una volta trovata la giusta combinazione di mod e armi, vi ritroverete ad abusare sempre delle stesse, colpa anche della già citata confusione generale degli scontri, che non permette di sfruttare pienamente tutte le possibili opzioni tattiche a disposizione, dallo stealth ai fendenti o a mosse speciali di vario genere, troppo lente per essere realizzate in quella bolgia infernale, svilendo così le pur buone intenzioni di Flying Wild Hog di offrire un gameplay quanto più vario e stratificato. L’amaro in bocca resta, perché quando funziona, come ad esempio quando si riesce ad attirare gruppi di nemici in un punto e fargli detonare contro un barile esplosivo o una pianta mefitica pronta ad inondarli di veleno o di schegge di ghiaccio, riesce ad essere davvero appagante.
Ci si mette poi una certa ripetitività di fondo, accentuata dalla generazione procedurale tutto fuorché perfetta, ad appesantire il tutto: Shadow Warrior 2 ha infatti abbandonato la struttura estremamente lineare del predecessore, in favore di una più libera e ad ampio respiro. C’è un hub centrale, Dragon Town, dove sono presenti alcuni (pochissimi) NPC, i quali ci daranno missioni principali e secondarie, e ci venderanno armi, munizioni e mod, ed è qui che, una volta terminata una quest, ci teletrasporteremo grazie ai poteri di Kamiko.
Se quelle principali sono ambientate in specifiche location, ognuna con una sua identità, quelle secondarie provano a rimescolare le carte in tavola proponendo versioni alternative delle stesse, scombussolate però da un algoritmo, che, sulla carta, dovrebbe cambiargli i connotati e renderle fresche e nuove, ma dopo ore ed ore di gioco, difficilmente riuscirete a scrollarvi di dosso una pedissequa sensazione di déjà-vu, tra interi segmenti sin troppo riconoscibili, nonostante il cambio di orario e di clima, e semplici versioni “reverse” degli stessi livelli, in cui finirete a camminare a ritroso su sentieri famigliari, e ad aprire gli stessi scrigni, tra un abuso del backtracking perpetrato chissà per quale motivo dal team (in quanto il monte ore, ben oltre le 20, sarebbe stato comunque soddisfacente) e l’altro.
Graficamente c’è davvero poco da ridire, e in alcuni frangenti, soprattutto quando è l’ambientazione di turno a rubare la scena, è davvero difficile credere che si tratti di una produzione di un team così giovane, e dal budget con decisamente meno zeri di quelli di altri colleghi ben più blasonati. Sia chiaro però, non è tutto rose e fiori: la conta poligonale appare un po’ povera, almeno per quanto riguarda alcuni elementi in particolare (come i nemici umani, davvero “antiquati”, ottimi invece alcuni dei personaggi principali) mentre alcune texture appaiono un po’ sporche. Abbiamo inoltre riscontrato qualche lieve problema con le collisioni e rari fenomeni di pop up.
Tra le problematiche più gravi, spiccano degli sporadici crash e dei ben più frequenti cali di frame-rate nelle situazioni più concitate, oltre che dei brevi freeze, notati in particolare nei pressi di alcuni checkpoint, anche senza alcun mob presente su schermo. Il tutto, lo precisiamo, su una configurazione poco oltre i requisiti consigliati, in grado di far girare tutto ad Ultra.
In generale, l’impatto visivo è davvero ottimo
In generale, comunque, l’impatto visivo è davvero ottimo: ci è capitato più volte di interrompere sul più bello una battaglia e immortalarla con il Photo Mode (ricco di filtri ed effetti), nel suo poetico affiancare bestie immonde ai delicati giardini e placidi laghetti situati di fronte a imponenti pagode, illuminati dal rosso del tramonto; oppure ripugnanti scorpioni decimati uno dopo l’altro in una foresta in tempesta, con gli alberi e l’erba, carica di dettagli ed estremamente realistica, scossi tumultuosamente da un forte vento, e bagnati dalla pioggia incessante, il tutto di notte, con la sola luce della Luna (powered by un’ottima illuminazione) che squarcia le tenebre, e coadiuvata da torce disseminate qua e là, riesce a creare un’atmosfera niente male.
Il design dei livelli e di buona parte dei nemici è molto ispirato: bestioni che brandiscono campane come armi, super-ninja velocissimi, spiriti fluttuanti, e deformità varie faranno tutto pur di mandarvi al Creatore, e il loro aspetto è curato e malsano al punto giusto, ma è evidente un certo riciclo di modelli e movimenti, anche nei mid-boss, i quali seguono tutti lo stesso pattern, scenografico (con l’evocazione di creature casuali una volta dimezzata la barra della vita) ma alla lunga scontato e prevedibile. E lo stesso vale per le ambientazioni, in quanto la generazione procedurale non riesce proprio a nascondere il riutilizzo di numerosi scorci, cosa che alla lunga, dovendo tornare per più missioni nella stessa zona, può stancare.
Senza soluzione di continuità si passerà da boschi a maestose ville e borghi medievali giapponesi, fino ad arrivare a torbide e fredde città del futuro, illuminate unicamente da neon e pullulanti di droni, cyber-guardie e inquietanti bambole killer, oltre che ibridi tra mostri e mech alti 3 metri. Dei cambi di ambientazione forse un po’ troppo repentini, ma questo spostare l’azione da un luogo all’altro, seppur frettoloso e un po’ incoerente, risulta certamente gradito ai fini della varietà, soprattutto quando si finisce col tornare nelle stesse location, la cui esplorazione, il più delle volte, ovvero quando la generazione procedurale decide di funzionare, viene favorita dal buon design, tra percorsi multipli, anfratti e zone segrete che custodiscono collezionabili, oltre che casse del loot e potenti nemici. Non a caso, una volta completate le missioni, è possibile tornare in qualsiasi momento in ogni singolo livello visitato, con qualche stravolgimento, e tanti nuovi nemici da eliminare.
Anche l’accompagnamento musicale è molto piacevole, tra soffuse melodie che evocano l’estremo oriente e bordate piazzate tra capo e collo da chitarre taglienti che sottolineano l’ingresso nel vivo dell’azione. Peccato però per la mancata localizzazione in italiano, testi inclusi: il vasto e intricato vocabolario di Lo Wang rischia di far perdere gran parte delle battute (tra alcune riuscite e divertenti, altre un po’ meno), e quindi parte del fascino di Shadow Warrior 2, ai giocatori che non masticano l’inglese.
Un passo avanti non equivale automaticamente ad un successo, e Shadow Warrior 2 ne è un ottimo esempio. Abbiamo apprezzato le novità introdotte, che trasformano l’esperienza in un qualcosa dal respiro più ampio rispetto al passato, e che offrono soluzioni ludiche creative e molto varie. Lo stesso vale per il comparto grafico e artistico, tra un gran bel colpo d’occhio generale, almeno per quanto riguarda le ambientazioni, e il design di alcuni nemici davvero intrigante. È stato inoltre divertente sperimentare con le mod, e sfruttare il vasto arsenale di Lo Wang in continuo aumento lungo tutta la campagna, tra potenti armi e devastanti abilità. Peccato però che la generazione procedurale vada a rompere ancora una volta le uova nel paniere, non riuscendo pienamente nel suo scopo, ovvero donare freschezza alle location (sfruttate in più occasioni e bisognose di una “rimescolata”), appesantendo così il gioco sulla lunga distanza. Gli scontri confusionari ed esageratamente frenetici, cozzano poi con le numerose possibilità di approccio offerte al giocatore, il quale si ritrova costretto ad abusare delle soluzioni più semplici per progredire nella trama (tutto fuorché memorabile), sprecando così tante buone intuizioni. Un pizzico di personalità in più (dal punto di vista puramente ludico) e qualche ambizione in meno avrebbe forse portato ad un risultato migliore. Le qualità e potenzialità di Flying Wild Hog, in compenso, sono chiare e limpide. |