Editoriale 24 Mar 2014

Share: una Generazione in Vetrina…

Tanti anni fa, quando ancora nessuno conosceva il significato di “next-generation” e non c’era nulla di più reale di uno spritesheet a 16 bit, fare il videogiocatore era un lavoro duro. E non perché i giochi fossero più difficili di oggi (beh, giocate a Castlevania su NES e poi ne parliamo), perché le walkthrough su internet fossero ancora dei concetti lontani anni luce o perché gli allora game designer si divertissero a creare avventure impossibili sacrificando l’anima dei giocatori per una longevità da record. No, la realtà delle cose – Dark Souls permettendo – è ben altra: una volta si giocava per il gusto di giocare. Magari non si era proprio dei mostri di compagnia e ci si ritrovava con l’abbronzatura verdognola da monitor, tapparelloni abbassati e cuffie fino ai timpani ad ammazzare il boss di turno, tra un cazzotto alla tastiera e un mouse rigorosamente a filo usato come un giavellotto. C’erano gli amanti delle sfide di squadra, gli irriducibili della coop alla Final Fight, quelli che da soli si picchia bene ma in due si rompono più schiene; chi non vedeva l’ora di impartire una lezione a FIFA o ISS Pro, chi per una decina d’ore al giorno indossava le vesti di un Paladino e si autoconvinceva della non-esistenza della vita al di fuori di Diablo.

Che foste del gruppo “all by myself” o dei simpatizzanti delle cose di gruppo, la sostanza cambiava poco: si giocava per placare una sete di sfida e avventura, per sfiorare quel piacere fine a sé stesso che, una volta raggiunti i credits o dopo l’ennesima vittoria sul nostro sfidante, ci faceva sentire degli eroi, dei veri ganzi. Del resto, perché tutti voi avete stretto un pad o una tastiera tra le mani anni or sono? Semplice: perché prendere a mazzate un passante non è propriamente la cosa più furba che si possa fare in città, perché se già è difficile trovare gnocca nel weekend figuriamoci imbattersi in un drago incazzoso, per questi o per mille altri motivi riassumibili in un solo, semplice “perché mi diverto”. E credetemi, non ho certo spaccato una mezza dozzina di Albatros così per caso: c’erano passione e determinazione, oltre che un migliaio di nemici tra me e il tanto agognato The End.

Una volta non era necessario gridare al mondo che eravamo dei giocatori. Il Nerd era una creatura mitologica schiva, brufolosa e cicciona, con degli occhialoni spessi un paio di centimetri e un’allergia mortale ai raggi solari: un uomo di Neanderthal informatizzato capace di repellere magneticamente le donzelle e di parlare idiomi sconosciuti a metà tra l’inglese e il Klingoniano. Il videogiocatore giocava nella propria stanza, magari inventando scuse allucinanti per non uscire all’aperto come “quelli normali”, senza sentire la necessità di avvisare zio, cugino o dirimpettaio di come saltando dalla pedana A a quella B e raccogliendo il Power Up X sconfiggere il leggendario mostro Pippero fosse una passeggiata. Era uno “sfigato” discreto, che parlava delle proprie passioni con una cerchia ristretta di propri simili (chiamati in genere Sfigati o giù di lì): e questo gli bastava per vivere felice.

Poi un giorno accadde qualcosa. Dopo anni di prese per il culo, di ingiuste discriminazioni e di preconcetti, essere Nerd divenne la cosa più figa del mondo. Essere degli individui social-hipster-hitech-vattelapesca divenne un trend unisex, le ragazzine (più o meno “ine”) iniziarono ad indossare enormi occhialoni dalla montatura nera in adorazione della Dea Arisa e puff, “mamma, sono diventato un Nerd“. Nel 99% dei caso nessuno tra gli appartenenti a questa nuova ondata aveva la benchè minima idea del significato di questa parola, della filosofia di vita abbracciata anni prima da coraggiosi pionieri, vittime dell’ignoranza globale e ora persino privati di quella che era il proprio mantra. “Usi Instagram? Hey, sei proprio una nerd!”, per non parlare di Twitter, Facebook o derivati. Robe da accapponare la pelle.

Il fenomeno Social non poteva certo non accorgersi di questa devoluzione sociale, e nel cuore di una notte tempestosa a qualcuno venne l’idea che avrebbe rivoluzionato il mondo. Perchè non usare la vetrina digitale più visitata del globo per raccontare non solo i cazzi propri, ma anche per dire con cosa sto giocando oggi? E già che ci siamo, perchè non far impennare l’hype pubblicando achievements, punteggi e altre diavolerie per suscitare la curiosità degli utenti? La rivoluzione, il social che si fonde col videogioco e trasforma tutto in un fenomeno di costume, era iniziata: e di colpo gridare al mondo a cosa sto giocando, quale record ho infranto e quanto sono imbattibile in Farmville, Candy Crush o abomini del genere era diventata una necessità. Ma questo era solo l’inizio.

Le prime vittime (o carnefici) illustri di questa Social-Gamification, giochini made in Facebook a parte, furono i titoli mobile (iOS e Android), grazie anche all’implementazione di librerie proprietarie che rendevano estremamente facile (e quindi obbligatorio da farsi) l’interazione social. Che un “luogo” per queste cose esistesse già e si chiamasse “Game Central” o “Open Feint“, oggettivamente, non importava a nessuno.  Nell’arco di pochi mesi le bacheche si riempirono di “Hey, ho appena acquistato Angry Birds ed è bellissimo“, “Il tuo amico <insulto a caso> ha appena ucciso 7 nonnine in <gioco inutile a caso>. Prova a batterlo!” e cose del genere, pubblicabili a discrezione dell’utente che, specie nei casi peggiori (e manco così rari) non vedeva l’ora di scannare l’amichetto in una faida videoludica. E mentre la nuova generazione di “presunti nerd” gridava al mondo quanto fosse figo il nuovo giochino, quelli con più primavere sul groppone, con l’occhio abituato ai vecchi CRT prima ancora degli LCD, piangevano amareggiati nella loro stanzina solitaria.

Ma la reazione a catena innescata nell’universo smartphone era destinata a colpire un mercato più grande da lì a breve distanza. Con la generazione di PS3 e Xbox 360 proiettata verso un lento tramonto e l’affacciarsi delle nuove piattaforme ammiraglie nel panorama internazionale, quello che sembrava un fenomeno legato al gaming portatile travalicò i propri confini diventando, a tutti gli effetti, il piatto forte delle features della next generation. PS4 venne annunciata e metà annuncio venne riservato al meraviglioso tasto Share, un pulsante grazie al quale sarebbe stato possibile pubblicare istantanee di gioco su Facebook/Twitter oppure uploadare – ovviamente in quel di Zuckemberg-landia – un filmato della propria sessione ingame. Una decina di minuti (rotto più, rotto meno) condivisibili anche su Xbox One perchè ormai si sa, se non mostri ai tuoi amici a cosa stai giocando (sperando in commendi grondanti invida e qualche insulto) sei un povero stronzo. Tra uno screenshot e un video, tra un tweet e qualche simpatica istantanea, di colpo tutti sapevano che console avevamo, i giochi in nostro possesso e i progressi in ciascuno di essi: alla legge del social network, insomma, non si sfugge.

Ma caricare brevi spezzoni della propria partita era solo l’inizio di un diabolico progetto ben più complesso: la possibilità di mandare in streaming, rigorosamente in diretta, ogni nostro match sfruttando un’infrastruttura online apposita. Twitch e Ustream fecero la propria trionfale apparizione, diventando quanto di più comune e naturale un possessore di console potesse pretendere dal proprio hardware. Del resto, perchè limitarsi a raccontare al proprio amico di aver giocato ad Assassin’s Creed quando puoi mostrarglielo a costo zero, magari facendolo rodere fino al midollo? L’eco di tali trovate si è dimostrato così potente non solo da garantire ai rispettivi possessori degli introiti astronomici in tempi record, sfruttando astutamente la curiosità che contraddistingue un giocatore preso per la gola, ma addirittura da indurre testate internazionali più o meno prestigiose a trasformare le dirette su Twitch come parte integrante dell’offerta editoriale. Sì insomma, guardate un po’ com’è la nuova espansione di Diablo mentre la giochiamo per voi. Una trovata interessante, è vero, ma che ancora una volta ci mette di fronte ad un’annosa questione: tolti i suddetti scopi divulgativi, che a parte tutto rappresentano un’intuizione pregevole, e tolte allo stesso modo le sessioni educational (un esempio su tutti è League of Legends) durante le quali è possibile apprendere le tecniche di gameplay più utili per padroneggiare il gioco, dai rudimenti alle cose più avanzate, siamo sicuri sia questo che vogliamo dalle nostre console?

Mettere in bella vista i propri acquisti o i progressi fatti con Ground Zeroes, oppure trasmettere un nostro match di FIFA 14 con tanto di commento in diretta: è questo che ci aspettiamo dalla next generation? Di colpo non ci basta più essere dei “semplici” giocatori, chi più chi meno incline al gioco multiplayer, ma abbiamo davvero la necessità di mettere in mostra il nostro “potere videoludico” con amici e conoscenti? In un mercato criticato spesso (e aspramente) per una sempre più diffusa carenza di idee e innovazione, c’è forse bisogno di una rivoluzione social come questa?

Il successo ottenuto dai social media e gli indotti astronomici raggiunti da Twitch e soci sembrerebbero dare una risposta affermativa a questo quesito: i tempi cambiano, le mode pure e quello che una volta era un hobby da stanza, l’essere videogiocatore, si è progressivamente trasformato in uno status symbol da rimarcare e ricordare agli altri con ossessiva frequenza. Così come il Nerd da “reietto della compagnia” si è evoluto in un icona sociale dell’ultimo quinquennio, tanto che ora se dai del nerd a uno molto probabilmente ti ringrazia, anche il “videogiocatore sociale” pare godere del massimo della propria popolarità. Internet e i suoi figli diventano parte integrante del bagaglio personale del gamer, apparentemente non più attratto da un’esperienza dal forte impatto emotivo (avventure come Ico, Silent Hill 2 o Bioshock Infinite sono solo alcuni degli esempi più eclatanti) ma comunque fine a sé stessa quanto piuttosto dalla possibilità di cavalcare l’onda della notorietà (traducibile nei famigerati Like o Retweet) da salotto digitale. Perchè alla fine della fiera si rischia di non giocare più per il piacere intrinseco del gioco, quanto piuttosto per placare una fame insaziabile di approvazione collettiva, resa ancor più “estesa” da una diffusione oramai capillare del medium videoludico. Ma con una vetrina così illuminata a disposizione, sempre pronta a premiare che ha il coraggio – o l’ardore – di esporsi in prima persona, c’è da chiedersi se sarebbe da folli non approfittarne.

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