Con l’enorme successo del Kickstarter di Shenmue III, sarebbe stata una follia non cogliere la palla al balzo e dare una spolverata ai due episodi che lo hanno preceduto, quei primi tasselli del grande puzzle ideato da Yu Suzuki alla fine dello scorso millennio, talmente grande da finire sepolto sotto le sue stesse ambizioni, al punto di rischiare di non riuscire nemmeno a vedere la parola “Fine” così lungamente attesa. Era infatti il dicembre del 1999, quando Shenmue fece il suo debutto su Dreamcast, console tanto amata quanto sfortunata, un’opera monumentale, per l’epoca, che rivoluzionò numerose meccaniche e soluzioni di design, e ne creò di inedite (come gli amati/odiati QTE), e che costò a SEGA cifre da record (intorno ai 50 milioni di dollari, in un primo momento si parlò addirittura di 70 milioni), cifre impossibili da recuperare anche nonostante le ottime recensioni e la calorosa accoglienza del pubblico (nonostante gli evidenti problemi che, ve lo diciamo già da ora, persistono ancora oggi).
Parte di quella cifra coprì anche le spese del sequel, Shenmue II, che vide la luce due anni dopo, ma la crisi di SEGA colpì tutto e tutti al suo interno, a partire dal leggendario team AM2, e lo stesso Suzuki abbandonò la barca pronta ad affondare da un momento all’altro. Ci sono voluti 14 anni e 6 milioni di dollari raccolti da circa 70000 backer per sentire parlare di un nuovo capitolo, annunciato in pompa magna durante l’altrettanto leggendaria conferenza E3 di Sony e previsto per il prossimo anno, con un nuovo team in cabina di regia, Ys Net, ma con Suzuki sempre al comando.
Come dicevamo qualche riga più in alto, insomma, sarebbe stato folle non approfittare del momento di gloria della serie (complice anche lo stato di grazia di Yakuza che tanto, tantissimo le deve) e riproporre i pressoché introvabili primi due capitoli, così da offrire le giuste basi ai neofiti che a quei tempi non avevano ancora l’età adatta a cogliere un’opera così complessa (in particolare quelli non-anglofoni, in quanto mancava – e manca tuttora – una localizzazione per il nostro paese), o che ancora non erano nati, e da permettere ai veterani di fare un doveroso ripasso delle vicende di Ryo Hazuki.
Del resto, il punto forte dell’opera di Suzuki è proprio la sua storia, che parte da presupposti estremamente classici, eppure in grado di rapire i giocatori dell’epoca, e di coinvolgere anche quelli moderni: in un freddo pomeriggio autunnale del 1986, nella fino ad allora tranquilla cittadina di Yokosuka, il protagonista vede suo padre morirgli tra le braccia nel dojo di famiglia. L’autore di un simile, tremendo gesto, è un misterioso uomo dalle chiare origini cinesi, alla ricerca di una preziosa reliquia, uno specchio, sepolta nel giardino di casa Hazuki, e di vendetta da parte del suo altrettanto misterioso committente.
È così che ha inizio l’avventura di Ryo, abile lottatore, una skill che gli si rivelerà fondamentale nel progredire della sua vera e propria investigazione: i brutti ceffi non mancheranno né tra le strade di Yokosuka, nel primo capitolo, né in quelle ancor più vivide e pericolose di Hong Kong del secondo, un asse Giappone-Cina lungo cui si dipana con una lentezza quasi solenne la ricerca della verità. Ryo dovrà infatti cercare qualsiasi indizio utile per scoprire chi abbia ucciso suo padre e perché, ponendo domande tanto ai numerosi NPC che incontrerà sul cammino quanto alle figure chiave della trama, menando le mani di tanto in tanto, ma passando gran parte del suo tempo a trovare la persona giusta al momento giusto. O a dedicarsi ai lavoretti più disparati, sfide a braccio di ferro e ormai iconiche gare a bordo di muletti incluse.
Il punto forte dell’opera di Suzuki è proprio la sua storia
Il tempo, non a caso, è un elemento cruciale dell’intera serie: dopo aver chiesto a chiunque di questo o quel sospetto in grado di darci qualche rivelazione cruciale, scopriremo che adora sbronzarsi in un certo bar che apre ad una certa ora, o che lo si vede intorno alle 19 nel negozio di camicie di Dobuita. E, che ci crediate o no, dovrete attendere l’orario prestabilito, senza sconti di sorta, né di comodi reminder o indicazioni (al massimo, Ryo lo appunterà sul suo fido diario): una ricerca del realismo da sempre alla base dell’idea originale di Suzuki, che voleva imitare la vita vera, tempi morti e noiosi inclusi, nel modo più fedele possibile, al punto da eliminare bussole, indicatori e mini-mappe (ma tranquilli, se ne trovano in giro per le città).
Il risultato, inevitabilmente, era ed è tuttora un gioco dal ritmo lentissimo, a tratti snervante, che pur comprimendo 24 ore in-game in una sola nella realtà, ci costringe ad attendere lassi a volte interminabili, così da poter andare a dormire, ripartire la mattina dopo, e attendere nuovamente che apra questo o quel negozio. Fortunatamente di cose da fare con cui ammazzarlo, quel tempo interminabile, ce ne sono a bizzeffe, come gli adorati mini-game, inclusi veri e propri capolavori dell’epoca d’oro arcade (come Space Harrier e OutRun), disseminati tra le fumose sale giochi cinesi e giapponesi; oppure le sessioni di allenamento estemporanee con cui potenziare il vasto catalogo di mosse a disposizione di Ryo, tra calci, pugni, schivate e prese, da applicare nei combattimenti contro sgherri e balordi incontrati più o meno per caso (meno nel primo, molto più frequentemente nel secondo), nei quali non viene minimamente nascosta la profonda influenza della serie picchiaduro Virtua Fighter, una delle tante contaminazioni che, tra la componente puramente adventure, l’esplorazione ai limiti dell’estenuante, e un pizzico di azione, rese così unici e rivoluzionari i due Shenmue.
Anche la struttura (semi-)open world, non così comune, per l’epoca, in un gioco 3D, risulta ancora oggi sbalorditiva: i limiti ci sono e sono evidenti (da lì il “semi-” aggiunto tra parentesi), così come i caricamenti – rapidi – tra una zona di raccordo e l’altra, ma che stiate camminando per le strade di Yokosuka o di Wan Chai, avrete sempre la sensazione di trovarvi in un mondo vivido e pulsante. GTA e soci ci hanno abituato bene, quindi è inevitabile nel 2018 dare molto, se non tutto, per scontato, ma per l’epoca era pazzesco anche solo vedere la semplice routine dei negozi, con i proprietari che chiudono la serranda all’orario di chiusura prestabilito e indicato sulla porta, o i bar e i locali notturni che accendono le luci solo quando le attività comuni sono ormai chiuse da un pezzo. Le ambientazioni pullulano di NPC con cui è possibile interagire, e se buona parte di loro ci sbolognerà asserendo di avere troppa fretta, il più delle volte avranno frasi sempre diverse, e contestuali al nostro compito in corso, dicendoci di non sapere nulla di questo o quel tizio, o suggerendoci di fare un salto presso un determinato posto ad una determinata ora per avere qualche chance di incrociarlo – e far scattare l’immancabile cutscene.
Avrete sempre la sensazione di trovarvi in un mondo vivido e pulsante
In generale, c’è sempre tanto da fare e vedere, complice la mole incredibile di dettagli minuziosi disseminati dal team, ricchissimi per l’epoca, e di elementi con i quali è possibile interagire, e solo le interminabili attese, ridotte nel secondo, che vanno a spezzare il ritmo, intaccano un’esperienza che, dal punto di vista narrativo, regge ancora benissimo il peso degli anni.
Un discorso che non vale minimamente per l’aspetto puramente visivo e tecnico, che ne esce inevitabilmente con le ossa rotte: l’aumento di risoluzione può far poco in un mare di texture obsolete senza un lavoro di ricostruzione da zero che avrebbe sottratto non poco tempo e risorse, di cutscene in 4:3, di audio compresso (doppiaggio del primo in primis), di modelli poligonali spigolosi e di animazioni rigidissime, sottolineate da movimenti per nulla fluidi che, nei luoghi più angusti, richiedono qualche sforzo extra per essere domati, una problematica che vale anche per la telecamera, non proprio brillante neanche nei combattimenti. I quasi 20 anni si sentono tutti, e la dicitura “HD” omessa dalla copertina sembra quasi voler sottolineare la volontà non tanto di ridargli una veste moderna, missione per nulla compiuta, quanto, semplicemente, di renderlo compatibile con gli hardware odierni (PS4, Xbox One e PC), così da preparasi al meglio al nuovo episodio che, si spera, riesca a mantenere almeno un minimo di quella carica innovativa e rivoluzionaria, fondamentale per il gaming tutto, di Shenmue I (e II). I 35 euro richiesti per oltre 50 ore di gioco, in quell’ottica, ci appaiono quindi un giusto compromesso, tenendo però bene a mente gli evidenti limiti tecnici.
Il peso degli anni si sente eccome, ma questa raccolta resta il modo più semplice e comodo per recuperare due capolavori del passato, opere seminali che hanno influenzato in maniera più marcata alcune serie, come Yakuza che tanto forte sta andando anche in Occidente (e che potremmo definire una sorta di reincarnazione dello stesso Shenmue), ma più in generale, il gaming tutto. Non aspettatevi chissà quale sopraffino lavoro di smussamento: entrambi i capitoli sono ancora molto spigolosi, sia graficamente che ludicamente, hanno un ritmo lento e a tratti estenuante, e non sono nemmeno stati localizzati, diventando così indigeribili a chi proprio non mastica l’inglese. Ma se il fascino della serie, riportato alla luce dall’annuncio di Shenmue III, ha in qualche modo suscitato la vostra attenzione, una possibilità dovreste dargliela, anche solo per poter capire perché, durante quello stesso annuncio, milioni di giocatori attempati si strappavano vesti e capelli. |
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