Dark Souls ha fatto scuola, e ormai è un dato di fatto: sempre più giochi non solo non lo nascondono, ma addirittura si fregiano di essere dei “soulslike”, inserendosi nel solco lasciato dalla monumentale trilogia firmata Hidetaka Miyazaki offrendo buona parte degli elementi cardine della sua proposta ludica, ma anche della sua filosofia di game design. Difficoltà sopra la media, narrazione ermetica, level design arzigogolato, meccaniche profonde e complesse, e atmosfere gotiche, morbose, nere come la pece. Spesso però, questa etichetta anelata da un discreto numero di sviluppatori (anche se altrettanto spesso è da questa parte della barricata che si tende ad affibbiare paragoni del genere, un po’ per superficialità, un po’ per pigrizia), oltre ad essere immeritata, è anche fuorviante. Un po’ come nel caso di Sinner: Sacrifice for Redemption, che abbiamo avuto modo di provare alla GDC 2018, il cui caso è un mix di vera e propria sudditanza psicologica nei confronti di Dark Souls, ma anche di volontà di provare qualcosa di diverso dal solito. L’inesperienza del team Dark Star però, unita a qualche pecca concettuale di design, rischia di infliggere un colpo troppo duro.
La differenza principale sta nella completa assenza della componente esplorativa, pilastro della saga di From Software, continua fonte di brividi in quanto sono sufficienti una distrazione di troppo, una trappola non prevista, o milioni di anime abbandonate sul bordo di un precipizio a mandare ore e ore di gioco all’aria: il concept alla base di Sinner avrebbe anche potuto prevederne una, complice anche una premessa narrativa intrigante, seppur non proprio originale (nemmeno quella), ma forse per ottimizzare le risorse, o per provare a sperimentare con qualcosa di nuovo, il team ha optato per una soluzione completamente differente. Adam, il protagonista, si ritrova in una dimensione simile ad un Purgatorio, senza memoria e circondato da pericoli e decadimento. A fargli da compagnia c’è solamente il concetto di sacrificio: il suo scopo infatti è esclusivamente quello di eliminare otto boss, sette dei quali sono l’incarnazione degli altrettanti peccati capitali, ma prima di ogni combattimento deve accettare di perdere parte della sua potenza, rinunciando via via alla possibilità di utilizzare oggetti, alla barra di energia, alla forza. Non c’è, insomma, alcuna appagante sensazione di crescita, di diventare via via più forte, tutt’altro: al contempo però, ci si rende conto che è la propria abilità pad alla mano ad essere messa alla prova, ed è proprio questo il target di utenza a cui punta Sinner: Sacrifice for Redemption, non a chi, invece, cerca un’esperienza ruolistica con tutti i crismi.
Limitato è il campo di azione, e per certi versi anche il fattore risk/reward: per quanto sia lodevole il fatto di poter scegliere l’ordine di eliminazione dei boss (si toccano delle pietre e si viene teletrasportati nell’arena di combattimento, tra fuoco, ghiaccio e strutture decadenti), sperimentando così con le varie forme di “rinuncia”, la facoltà di redimerli, ottenendo in cambio un piccolo boost alla salute, oppure di sacrificarli, senza alcun bonus/malus come conseguenza, ma con il solo impatto, in entrambi i casi, sulla tipologia di finale che si avrà (per un totale di tre) smorza la già scarsa epicità del tutto. Ci pensano le boss fight a ripristinare un minimo l’ordine, ma non più di tanto: i boss sono grandi e grossi, con la solita sfilza di pattern di attacco da memorizzare prima di poter sferrare i propri attacchi, ma la rigidità del combat system, “soulsiano” al punto giusto tra schivate, parry e mix di attacchi leggeri/pesanti, non fa altro che renderle esageratamente dure e difficili. Ne abbiamo provate tre, senza sentirci scorrere dentro l’adrenalina e la soddisfazione, o il giusto e gustoso sapore della sconfitta in bocca, preferendo passare il tempo a ricordarci a quale boss o location di Dark Souls somigliasse ciò che ci circondava.
Dark Star sembra avere un po’ troppa confusione in testa: crede di poter invogliare i giocatori semplicemente proponendo dei finali multipli, permettendo, almeno quello, di affrontare i boss nell’ordine che si preferisce, così da poter saggiare il diverso impatto che l’assenza di ognuno dei singoli elementi (di cui Adam verrà privato un combattimento dopo l’altro), senza però offrirgli nulla in cambio, solo qualche cutscene con cui narrare il background del boss che si sta per affrontare. Il combat system, che in assenza di una componente esplorativa, dovrebbe essere principe, è ancora legnoso e poco soddisfacente, motivo per cui né i paragoni con Dark Souls, né quelli con lo splendido Furi (da parte dello sviluppatore), sono davvero fuori dal mondo. Per non peccare mortalmente, Dark Star deve cercare un po’ meglio la sua strada.