La distopia, a differenza di quanto si possa credere , non è un topos molto sfruttato nel genere delle avventure grafiche: si può citare il recente Gemini Rue sempre per i tipi di Wadjet Eye, ma più che altro bisogna spostarsi nel passato come il Blade Runner di Westwood o uno dei capolavori di Revolution: Beneath a Steel Sky; ed è strano, in quanto esse se ne prestano forse molto meglio di altri generi videoludici, che lo utilizzano più che altro come un estetismo (forse solo il GDR Deus Ex, più che altro il primo, era qualcosa di molto potente per quanto riguarda il genere).
Distopia che non è identificabile, come superficialmente si fa troppo spesso, con la sci-fi in toto, ma in quel sottogenere specifico che descrive una società di un futuro più o meno remoto, spiacevolmente riconoscibile per noi esseri umani del presente. All’interno di esso vediamo portate al parossismo paranoie, vizi e devianze dei giorni nostri, e molto spesso questo sottogenere si manifesta nelle forme del cyberpunk, come in questo caso, per quanto non sia essenziale.
Questo è il futuro che ci mostra già dai primi momenti, praticamente dalla schermata del menu, Technobabylon; un futuro in cui si intrecciano l’interconnessione pressapoco totale fra umani, oggetti e servizi, la biogenetica, e androidi umanoidi chiamati sintetici, utilizzati in ogni ambito del mondo fisico, e applicati a problemi squisitamente umani come la paternità.
Una città che trasuda classicismi alla Dick e Gibson: Newton; un futuro remoto, ma non troppo, siamo infatti nell’anno 2078.
Questa è l’ambientazione che ci si presenta, familiare a chiunque adori il genere: gli amanti sicuramente ci si orienteranno immediatamente, godendosela e sguazzando senza ritegno al suo interno, ed in effetti ogni scorcio, ogni ambiente, non fa che titillare le papille gustative dei fanatici del cyberpunk.
La prima scena si apre, in piena concordanza con gli stereotipi del genere, su una giovane ragazza mulatta abbigliata e truccata in modo molto futuristico; subito ci si rende conto che non ci si trova nella realtà, ma in un ambiente chiaramente alieno, infatti intorno a noi c’è un totale vuoto azzurro elettrico, la Rete, o per lo meno la versione della Rete di Technobabylon.
Disconnettendosi ci si ritrova in un buio, orrendo, sporco e mal tenuto cubicolo, che scopriamo essere la reale abitazione della ragazza che, ora nella fredda realtà, appare quello che definiremo un perfetto neet: scalza, scialba, vestita di un grigio pigiama, la semplice caricatura del sé virtuale.
L’interconnessione da cui siamo usciti, scopriamo, si chiama Trance, e si stabilisce istallando un “wetware” una sorta di medium bioinformatico ai vari apparecchi che accettano la connessione (quindi solo quelli abbastanza moderni).
Qualche passo per prendere confidenza con l’interazione interfaccia/ambiente, che si basa su un primitivo ma funzionale, click destro/sinistro (sinistro si agisce contestualmente, col destro si esamina) e un semplice inventario a scomparsa.
Technobabylon ci mette subito a nostro agio promettendoci un’avventura punta e clicca classica nei suoi schemi e nel suo gameplay, ma adulta e matura, come la recente, bellissima, già citata Gemini Rue (dello stesso publisher tra l’altro), anche lo stile e i tratti estetici sono gli stessi, l’oramai strausato stile retro vintage, pixelart , dei primi anni 90, applicato oramai quasi fastidiosamente non solo nelle avventure punta e clicca ma in molti indie.
Classica è anche la scelta di impersonare multipli personaggi, tre per la precisione: l’agorafobica, quasi autistica, dipendente dalla Trance, Latha, che abbiamo già visto; due poliziotti alle dipendenze di Central, la IA che gestisce la città di Newton, uno dei quali è Charlie Regis, un uomo di mezza età, vedovo, intrappolato in un passato luttuoso e paradossalmente poco entusiasta della tecnologia, e Max Lao una giovane intraprendente ed entusiasta geek.
Le vite e le azioni di questi tre personaggi, sopratutto quelle di Latha e Regis, si intrecciano in una trama straordinariamente e, sorprendentemente, complessa, estesa, che donerà loro lo spessore psicologico che ci si aspetta da un film ben fatto. Tramite anche una regia sorprendente e un sapiente uso di flashback, che rifugge dai classici “spiegoni” infantili, ma si limita a rivelare quel che basta a tenerci attaccati all’intricata vicenda.
I puzzle e gli enigmi sono ben costruiti, e in alcuni casi decisamente ostici, più che altro quando non risulta immediato capire dove si è, e perché si è in un determinato posto, sopratutto quando l’avventura deve ancora ingranare; problema risolvibile in genere con l’interazione, tramite i lunghissimi dialoghi con i vari personaggi, tutti da leggere.
Ma più in generale nessuna azione è incoerente o illogica, o necessiterà dell’antica tattica rudimentale e volgare del “prova tutti gli oggetti dell’inventario a caso”: il “pixel hunting” che pensavamo fosse una patologia oramai scomparsa c’è, ma è poco presente, ed è più che altro connaturato alla scelta della grafica retro-vintage, ma raramente imprecheremo per non essere riusciti a proseguire in quanto un oggetto era nascosto nello scenario.
Nel complesso il gioco si presenta ostico, molto lungo, ma non frustrante.
L’ambientazione distopico-cyberpunk è curatissima, ispirata e ricercata, dispiace quasi vederla “sprecata” da una grafica che, per quanto curata e ben fatta nella sua veste retro e nostalgica, diciamolo pure, è fortemente limitata nelle sue possibilità; gli scorci della città, le panoramiche, gli interni, ma anche una regia e una scenografia che avrebbero meritato una messa in scena, a mio parere, migliore.
Chiariamo che nel suo genere l’aspetto grafico è godibilissimo, è che semplicemente, per l’abilità degli sceneggiatori e degli artisti, sta un po’ stretto, e probabilmente avrebbe avuto bisogno di un supporto di maggior spessore.
L’attenzione ai dettagli, non solo grafici, poi è altissima, basti citare il fatto che quando si fa una telefonata in gioco, componendo numeri sbagliati non avremo la solita frase fatta, ripetuta ad libitum, o il solito segnale di occupato da avventura grafica classica, ma decine e decine di risposte da persone diverse, che rispondono diversamente e plausibilmente (tutte le voci sono tra l’altro citate nei titoli di coda).
In conclusione…
Ammetto di essere rimasto veramente colpito, visto che al giorno d’oggi sempre meno vedono la luce avventure grafiche di tale qualità.
Technobabylon ha tutti i caratteri del punta e clicca di prim’ordine, scarsa frustrazione, enigmi e puzzle intricati ma non illogici, e veramente ben inseriti nel contesto.
I tempi narrativi sono disposti con perizia non comune per il genere, non più almeno, il che ci porta inevitabilmente indietro con la memoria ai classici degli anni 90; gli eventi si susseguono con registica ricercatezza, sopratutto nel finale, scevro da qualsivoglia pesante spiegone da blockbuster americano; la tensione è ben dosata così da non farci mai annoiare, o demordere, perfettamente in grado di darci la forza di proseguire, in attesa della soluzione; i flashback, infine, utilizzati senza appesantire una sceneggiatura veramente avvincente.
Forse l’unica cosa che può veramente lasciare l’amaro in bocca è proprio il “contenitore”: scrittura, temi, regia (e mettiamoci anche gli attori che donano le voci ai protagonisti) sono quasi sofferenti nelle trame che formano questo tipo di avventura retro-vintage, sia per l’estetica, sia per le meccaniche insite in questa scelta.
In definitiva, se amate le avventure punta e clicca o se siete un mai domo reduce degli anni 90, avete il dovere etico e morale di acquistare e giocare Technobabylon.
Se invece le odiate, ma amate la cyberpunk ben scritta, dovreste comunque dargli una possibilità.
Commenti