The 25th Ward: The Silver Case – Recensione

Nel 2016 Playism e Grassohpper Manufacture hanno (ri-)pubblicato The Silver Case, il videogioco realizzato nel 1999 da Suda51 – noto per le sue produzioni a volte visionarie, sopra le righe o semplicemente folli come soltanto un Lollipop Chainsaw può essere. La trama di questa visual novel tuttavia si avvicina più a lavori come Killer7: è cruda, spietata e mette in scena una realtà distopica dove la morale degli antagonisti non è l’unica a essere messa in discussione. In un periodo, quello attuale ma anche gli anni ’90, dove il genere noir non era più prolifico come un tempo ed erano finiti i giorni in cui Raymond Chandler conquistava l’opinione pubblica con i suoi romanzi mentre Humprey Bogart e Lauren Bacall fumavano sul grande schermo, Goichi Suda decise di percorrere una strada diversa da quella tracciata fino a quel momento dal genere poliziesco. Nacque così The Silver Case, che possiamo inserire nel cosiddetto neo-noir.

Un videogioco ambientato all’interno del 24th Ward, un’area circoscritta sotto il ferreo controllo di istituzioni che agiscono nell’ombra, d’un tratto sconvolto da una serie di efferati omicidi il cui modus operandi rimanda a Kamui Uheara – un serial killer detenuto in un ospedale psichiatrico dopo aver assassinato diversi esponenti politici anni prima degli eventi narrati. Un thriller in piena regola, caratterizzato da un forte senso di inquietudine e disagio dovuti tanto alla realizzazione artistica quanto alla scrittura, messi sapientemente in scena seppur in modo troppo contorto, che gli valse due anni fa una versione in HD. Suda51 realizzò anche un sequel (l’oggetto della nostra recensione), The 25th Ward: The Silver Case – un gioco che è soprattutto un archivio, perché in origine fu distribuito in formato episodico per cellulare solo in Giappone e su server di cui ormai non c’è più traccia. La decisione da parte di NIS America di pubblicarne una versione rimasterizzata non è solo un modo per farlo giocare in Occidente, ma anche per preservare qualcosa che altrimenti sarebbe andato perduto.

Ambientato alcuni anni dopo gli eventi di The Silver Case, il gioco è suddiviso in tre filoni narrativi due dei quali introducono personaggi nuovi, mentre l’ultimo vedrà in scena il protagonista del titolo originale: Correctness, nei quali seguiremo i detective Shiruyabu Mokutaro e Shinko Kuroyanagi della Heinous Crimes Unit alle prese con alcuni delitti apparentemente senza scopo; Match Maker invece ci metterà nei panni di Tsukino Shinkai, agli ordini della Regional Adjustment Division, che indaga sulla malavita in opera nel 25th Ward; infine Placebo, grazie al quale seguiremo Tokio Morishima nella sua ricerca della verità dietro i fatti occorsi nei precedenti filoni narrativi, guidato da una misteriosa Search Goddess. The 25th Ward: The Silver Case è ambientato nel distretto di cui porta il nome, una sorta di esperimento in una società che sembra aver rinunciato alla natura burocratica del governo in favore di un sistema basato più sul concetto di comunità. Attraverso le tre campagne, divise in diversi capitoli, scopriremo come fatti in superficie senza alcun collegamento fra loro nascondano in realtà un denominatore comune: Kamui.

Va da sé che per non trovarsi del tutto spaesati occorre una conoscenza pregressa del gioco originale ma anche così ci rendiamo conto che la spiegazione della trama appare piuttosto scarna: la ragione non è solo nel voler evitare spoiler ma soprattutto nel fatto di trovarsi davanti a un titolo che sembra essere il picco dell’estro creativo di Suda51- un’osservazione in bilico fra il plauso e la critica. Perché se da un lato è vero che per merito suo abbiamo potuto giocare a titoli particolari e memorabili, spesso di nicchia per il loro essere così sopra le righe, dall’altro è capitato che all’ispirazione fosse sacrificata una logica di fondo utile a capire cosa ci trovassimo di fronte. Se in giochi più ricchi d’azione come No More Heroes, il già menzionato Killer7 o Shadow of the Damned questi aspetti passavano più in secondo piano perché, di fatto, eravamo impegnati in qualcosa, in una visual novel come The 25th Ward: The Silver Case il peso è diverso soprattutto perché a differenza di altri titoli dello stesso genere qui non ci sono bivi o finali multipli: di fronte a noi abbiamo un percorso e una trama stabiliti che non possono cambiare direzione, dunque il nostro ruolo si riduce ancora di più a quello di spettatori, fatta eccezione per le scarne parti attive di cui si compone l’esperienza. A fronte di uno sviluppo sul quale non abbiamo alcun controllo è bene che il giocatore si senta coinvolto fin dai primi minuti ma, in particolare, che capisca a cosa sta andando incontro. Tutto il primo nodo narrativo, invece, mette in scena una trama che sembra partire con un senso e poi si perde in un vortice di dialoghi ben scritti che però spesso trascendono nel filosofico senza portare da nessuna parte, e situazioni che si sovrappongono in continuazione finendo solo col creare confusione con il rischio, poi, di trasformarsi in frustrazione. Intendiamoci, The 25th Ward: The Silver Case non è un brutto gioco, non lo si può definire tale.

Questo però non gli impedisce di essere incomprensibile, una nicchia nella nicchia, e mettere a dura prova persino (come chi vi scrive) i fan più incalliti di Goichi Suda. Richiede una concentrazione non indifferente per essere seguito e anche in quel caso non si riesce a trovare il bandolo di una matassa fin troppo intricata, che nemmeno al secondo nodo narrativo dimostra di avere intessuto il suo fil rouge. Adattarsi alla realtà distopica messa in scena e al ruolo che le persone occupano nella società è d’aiuto ma ancora non basta per dare un senso a quello cui si sta assistendo. I diversi punti di vista sono ottimi per comprendere meglio i singoli personaggi, a dispetto, come già scritto, di alcune conversazioni senza capo né coda, ma laddove dovrebbero aiutare a creare una visione d’insieme si rivelano essere in realtà pezzi privi d’incastro nel puzzle complessivo. L’estrema semplicità dell’interfaccia, e dunque la mancanza di una qualsiasi forma di recap per quanto già vissuto, rende il tutto ancora più complicato da seguire. Se volete cimentarvi in questa visual novel sforzatevi di farlo tutto d’un fiato o quasi, la comprensione ne beneficerà.

L’estro creativo di Suda51 grava molto su The 25th Ward: The Silver Case

Una nota di merito va invece ai controlli. Nel gioco originale il sistema di movimento e interazione era molto scomodo (non a caso è stato il difetto maggiormente sottolineato dalla critica già nel 1999), mentre in questo sequel tutto è stato ridotto all’osso, semplificandolo in modo da concentrare l’attenzione sulla raccolta di informazioni a la risoluzione degli enigmi. Una piramide nell’angolo in basso a destra è la nostra finestra sul mondo: ciascuna faccia corrisponde a un determinato comando, disponibile in base alla situazione, e interagendo non si aprirà alcuna nuova schermata. Semplicemente, alle precedenti opzioni si sostituiranno quelle nuove laddove possibile – ad esempio nel caso dell’inventario o del dialogo. Non abbiamo idea di come fosse su cellulare ma su PlayStation 4 è un buon espediente, utile a mantenere l’interfaccia pulita e lasciare maggiore spazio allo stile artistico, che è il vero tratto distintivo dell’opera di Suda51. Il plauso ai controlli non si estende tuttavia agli enigmi, molto limitati e nella maggior parte dei casi di semplice esecuzione: spesso per risolverli basta semplicemente selezionare il comando “Look” fino a che il sistema non sarà soddisfatto, oppure nei casi più “articolati” scegliere un oggetto dall’inventario o inserire password in diversi sistemi di accesso. Ci sono poi volte dove la soluzione di questi enigmi non è minimamente spiegata durante il gioco e deve essere trovata facendo collegamenti esterni alla narrazione in corso. Persino in un contesto più movimentato come dover affrontare un certo numero di assassini in serie, la scelta dello sviluppatore di creare un sistema alla Pokémon per combatterlo è quantomeno bizzarra e ancora una volta priva di logica – con il risultato, tranne nei casi più plateali, di affidarsi al caso e al trial & error.

Conclusioni

The 25th Ward: The Silver Case è un gioco difficile, da giudicare ma soprattutto da gestire. Sulla carta è un perfetto neo-noir distopico, caratterizzato da uno stile artistico che rende i contrasti (in particolare l’uso del bianco e nero) il suo punto di forza – come del resto ha sempre fatto fin dagli albori il genere cui si ispira. È tagliente, arguto, acuto e tratta temi molto forti senza girarci attorno, ma sono dettagli che emergono dai singoli dialoghi e si perdono invece nella trama complessiva, troppo contorta e visionaria persino per lo stile di Suda51. Lima alcuni difetti del titolo originale, ne mantiene altri e ne aggiunge di nuovi, senza dunque riuscire a elevarsi dalla mediocrità del predecessore. Il giocatore è uno spettatore il più delle volte passivo, chiamato ad agire in maniera troppo semplicistica mentre è impegnato a sbrogliare una matassa che al contrario si fa sempre più intricata di capitolo in capitolo, con il risultato di offrire un’esperienza goffa e rallentata da una narrazione spesso dispersiva. Non è un gioco per tutti, come poi lo sono quasi tutti quelli di Goichi Suda, ma anche per i più affezionati potrebbe rappresentare uno scoglio non indifferente: l’espressione più calzante per questo gioco è definirlo un imperfetto ma geniale capolavoro, un’opera figlia di altri tempi che ha contribuito a rafforzare il percorso formativo di uno fra i game designer più particolari che l’industria videoludica possa attualmente vantare.

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