Continua il nostro percorso lungo la strada dell’horror tracciata da Supermassive Games, autori di Until Dawn, che con The Dark Pictures Anthology hanno dato il via a una serie di racconti dell’orrore che hanno come filo conduttore i diversi modi in cui la paura può essere veicolata e raccontata. Dopo le inquietanti atmosfere della nave fantasma di Man of Medan e il fanatismo della caccia alle streghe in Little Hope, il team di sviluppo ci porta al termine della guerra in Iraq con House of Ashes: qui, un gruppo di soldati statunitensi e iracheni si troverà all’improvviso intrappolato in un orrore ben più grande del conflitto in corso, qualcosa contro il quale non sembra esserci soluzione e che li bracca dall’oscurità di un tempio nel quale precipitano dopo un conflitto a fuoco.
Qualcosa si muove, nel buio, e ha fame. Un male antico le cui radici risalgono addirittura all’impero accadico, nel 2300 a.C. Intrappolati e senza apparente possibilità di uscire, questi soldati dovranno contare soltanto sulle loro forze ed eventualmente mettere da parte le loro divergenze per uscirne vivi. Il nemico del mio nemico è mio amico, funziona così di solito, no? La decisione è tutta nelle mani di noi giocatori, che ancora una volta saremo i soli artefici del nostro destino in un racconto interattivo che prende a piene mani da pellicole cinematografiche come The Descent e Alien per mischiarle a capisaldi del genere letterario orrore cosmico (Lovecraft): il risultato è una narrazione nel complesso più concreta delle due precedenti ma che non manca di ingenuità, questo senza purtroppo considerare diverse problematiche lato gameplay.
Per dei buoni passi avanti compiuti, insomma, ce ne sono altri che spingono il gioco indietro, forse un po’ troppo. L’apprezzamento della narrazione è sempre in larga parte soggettivo, e noi l’abbiamo trovato migliore dei precedenti, tuttavia ci sono questioni molto più oggettive che non possiamo ignorare, soprattutto in un’esperienza che fa delle relazioni tra personaggi il punto forte per immergersi appieno nella trama. Scopriamo dunque assieme gioie e dolori di The Dark Pictures Anthology: House of Ashes.
Alla fine della guerra in Iraq, le forze speciali, dando la caccia alle armi di distruzione di massa, scoprono qualcosa di ancor più letale – un tempio Sumero sepolto contenente un nido di creature antiche e sovrannaturali. Per sopravvivere all’incubo, dovranno stringere un’alleanza con i nemici che avrebbero dovuto combattere. Queste sono le premesse narrative di House of Ashes e non aggiungeremo molto altro a riguardo se non i protagonisti, in modo da avere un quadro chiaro, nei limiti dello spoiler, per spiegarvi cos’ha funzionato e cosa avrebbe potuto essere gestito meglio.
Come anticipato, il gioco ci mette nei panni di due fazioni. I marine, sotto il comando di Eric King, i cui personaggi principali sono Rachel, Nick e Jason; ci sono anche tre comprimari ma su di loro non spenderemo parole, lasciandovi il piacere di scoprirli. Dall’altro lato ci sono gli iracheni, dei quali impersoneremo solamente Salim, un soldato richiamato all’azione nonostante il conflitto si sia concluso con la vittoria degli USA. L’ufficiale suo superiore prende di mira proprio l’unità di Eric King, che con un dispositivo di sua invenzione avrebbe tracciato il deposito di armi di Saddam ed è intenzionato, con il beneplacito del comando, a distruggerlo.
Durante l’ispezione del sito, i marine sono colti di sorpresa e la schermaglia che segue porta al cedimento improvviso del terreno sotto i loro piedi, facendo precipitare i soldati di entrambe le fazioni in quello che si scoprirà essere un tempio sotterraneo. Fin dall’inizio è chiarissimo il riferimento a The Descent, sia per l’ambientazione sia per la presenza, nell’ombra, di creature non meglio identificate che prendono di mira i sopravvissuti decimandoli con efficiente ferocia. House of Ashes gioca moltissimo, all’inizio, sul tenere queste mostruosità nascoste alla vista: ce le mostra di sfuggita sul percorso, ci fa vedere con i loro occhi, vediamo l’ombra proiettata sulle pareti ma la loro vera natura ci verrà svelata passo passo nel corso di quest’incubo a occhi aperti.
House of Ashes ha una narrazione più concreta e brutale
House of Ashes parte con un ritmo molto lento e, in generale, si dimostra il capitolo meno interattivo dei tre. Ovvero, giochiamo meno di quanto ci saremmo aspettati e spesso i cambi di punti di vista si risolvono nel giro di un’azione. Le stesse situazioni di pericolo sono meno incisive rispetto al passato, risultando generalmente semplici da leggere o risolvere, senza particolari guizzi che ci sorprendano per le eventuali conseguenze. È chiaramente un’esperienza che sceglie di raccontare la paura generata dalla tensione, dalla presenza di un ignoto che non sappiamo davvero come affrontare poiché l’unica certezza è che le misteriose creature sembrano immortali: in un certo senso, House of Ashes ci instilla la speranza di non incontrarle mai, o farlo il meno possibile, perché in quel caso non siamo sicuri di poterne uscire nonostante gli sforzi. Come si fa, del resto, a uccidere qualcosa che non può morire e ha il pieno controllo della zona?
Sotto questo aspetto, poste le premesse per cui sappiamo non poterci succedere nulla finché non parte un filmato, l’esperienza funziona. L’ambientazione ristretta e tendenzialmente claustrofobica, che a tratti si apre presentando aree molto più ampie, genera nervosismo durante gli spostamenti, ma abbiamo sentito ancora una volta la mancanza di quel tocco alla Until Dawn – che in virtù di una scelta esplorativa sbagliata era in grado di punire anche molto duramente. Ecco, un luogo come il tempio sotterraneo si sarebbe prestato benissimo a situazioni improvvise di questo genere, invece esplorare porta a scoprire eventuali aiuti che tornano utili in futuro e senza i quali la situazione potrebbe farsi difficile, ma non sfruttano mai un elemento sorpresa servito su un piatto d’argento.
Si presenta tutto molto lineare, con una progressione che fa semplicemente da ponte tra un filmato e l’altro ma non porta con sé, nel mezzo, eventuali deviazioni impreviste che avrebbero valorizzato non poco la narrazione. Intendiamoci, anche nei precedenti capitoli era bene o male così ma Man of Medan, per esempio, metteva in campo una co-op di tutto rispetto in cui i giocatori non sapevano se stavano aggredendo davvero un mostro o un compagno che, dall’altro lato, si trovava nella stessa situazione senza saperlo. Little Hope faceva ancora leva sulla telecamera fissa, sui salti improvvisi nel passato e sulla componente esoterica per rendere la linearità comunque meno telefonata.
House of Ashes, pur avendo questa volta il vantaggio della telecamera a trecentosessanta gradi, non sfrutta appieno l’effetto sorpresa che un tale cambio di passo potrebbe offrire. Certo, la concretezza della narrazione impedisce virtuosismi allucinogeni sulla falsa riga dei precedenti ma proprio perché l’ispirazione deriva da film come Alien o The Descent, arrivando a toccare l’orrore cosmico lovecraftiano, si poteva sicuramente fare qualcosa di più. Ripetiamo, nel complesso abbiamo apprezzato la narrazione più delle precedenti, proprio per essere molto fisica e brutale rispetto al passato (più vicina, in tal senso, ad Until Dawn), ma abbiamo avuto l’impressione di trovarci di fronte a una sceneggiatura a tratti monca e che non faceva appieno uso dell’ottima ambientazione proposta.
Non aiuta poi la messa in scena dei personaggi, che fatta eccezione per Jason e Salim risultano piuttosto piatti, soprattutto nelle reciproche relazioni. In particolare il triangolo Eric-Rachel-Nick manca di mordente e le reazioni di ciascuno di loro ci sono parse piuttosto sottotono, quando non forzate. Sebbene la scrittura sia a tratti più brillante di Man of Medan e Little Hope, o quantomeno più naturale, ancora una volta abbiamo sentito la mancanza di quella precarietà che tra le altre cose ha reso Until Dawn memorabile: se ben ricordate, il nostro atteggiamento nei confronti dei compagni poteva portare a conseguenze anche letali e fuori dal nostro controllo, momenti che ci hanno genuinamente sorpreso al tempo. Nessuno dei tre capitoli dell’antologia riesce a riportare su schermo quella tensione, l’incertezza di non sapere come si comporterà davvero un personaggio, perché in un modo o nell’altro si riesce sempre a cavarsela.
Tornando alla sceneggiatura monca, ci sono alcuni passaggi che spezzano bruscamente l’immersione, lasciando la sensazione che manchi un pezzo, un collegamento, un passaggio capace di rendere più fluida la stasi nel momento in cui una scena è pensata in ottica co-op. Ovvero: comprendiamo e accettiamo con un sorriso quando il personaggio controllato dall’intelligenza artificiale si “blocca” durante un dialogo, come se dall’altra parte ci fosse davvero un secondo giocatore che sta processando le informazioni e decidendo come agire, nondimeno avremmo preferito che, proprio perché è l’IA in controllo, ci fosse meno stacco in questi momenti e i personaggi reagissero nell’immediato sulla base delle nostre precedenti decisioni. Non possiamo fare esempi concreti perché scadremmo nello spoiler ma, a carattere generale, ci sono diverse situazioni singhiozzo che spingono a comportamenti erratici o incoerenti dei personaggi.
In termini di gameplay vero e proprio, a dispetto del passaggio alla telecamera a trecentosessanta gradi, unica soluzione per portare un’ambientazione come quella di House of Ashes, permane e se possibile peggiora la legnosità nella gestione del personaggio. L’esplorazione è più agevolata in termini di inquadrature ma la sensazione è di avere a che fare con personaggi gommosi e poco reattivi, lenti nei movimenti e confusionari negli input: è capitato diverse volte che non prendesse il comando per interagire con gli oggetti. Oggetti che peraltro mancano a volte di descrizione, rendendo impossibile capire che cosa si sta guardando. Piccoli bug qui e lì, insomma, che nel complesso rendono l’esperienza meno piacevole di quanto sarebbe potuta essere con una maggiore fluidità – discorso che si estende anche al doppiaggio, se giocato in italiano ci sono momenti in cui i personaggi passano all’inglese o al francese.
House of Ashes non manca di sbavature tecniche
Per fortuna i QTE non vengono intaccati e, anzi, sono migliorati in termini di reattività rispetto al passato, soprattutto per quanto riguarda le fasi con la gestione del battito cardiaco che in Man of Medan davano non pochi problemi. Arrivati al terzo capitolo, sarebbe però ora di migliorare la leggibilità dei tasti durante questi QTE, perché non è raro perdere quella frazione di tempo vitale per capire quale tipo di tasto si debba premere: certo, per un’esperienza più “tranquilla” si può optare per la modalità facile ma il punto rimane – visivamente andrebbero resi più efficienti.
In merito ai modelli dei personaggi, nel complesso sono tutti resi bene, convincenti, fatta eccezione per Rachel. Non sappiamo bene cosa possa essere successo in fase di motion capture ma non si riesce a guardarla senza provare il tipico disagio causato dall’uncanny valley: per chi non la conoscesse, l’ipotesi presentata dallo studioso di robotica nipponico Masahiro Mori, nel 1970, in cui l’estremo ma non totale realismo rappresentativo di un robot o un modello umano generato a computer produce sensazioni spiacevoli come repulsione e inquietudine. Nel corso delle nostre partite ci è stato impossibile fissare Rachel senza provare proprio questo senso di repulsione, di disagio appunto, che ha notevolmente impattato sulle sue sezioni narrative – peraltro il suo è un personaggio centrale per determinati eventi, se si riesce a innescarli, e dunque la sua presenza su schermo ha un certo peso.
Tirando le somme, House of Ashes è un capitolo che funziona? Meno di quanto ci saremmo aspettati. A fronte di alcuni passi avanti come l’implementazione della telecamera a trecentosessanta gradi o una narrazione più concreta e brutale, che contribuisce a generare uno stato di tensione costante e dunque una paura meno telefonata, troppi passi indietro vengono fatti sul fronte tecnico e del gameplay: ci sono bug sparsi che non rovinano l’esperienza, nel senso che non sono invalidanti, ma comunque ne spezzano la fluidità, e soprattutto una minor interazione da parte del giocatore per buona parte dell’avventura. Si interviene meno, nonostante questo sia il capitolo più action di tutti, rispetto ai precedenti e solo verso il finale c’è un’impennata di cui avrebbe beneficiato l’intero gioco.
Se sotto alcuni aspetti possiamo considerare House of Ashes un capitolo di transizione (vedasi la telecamera), sotto altri ci saremmo aspettati più cura e un maggior bilanciamento tra storia e azione. Rimane un gioco consigliato, in particolare in co-op, soprattutto perché se giocato da soli viene messo più in evidenza lo stacco e l’erraticità di alcune situazioni, e più curato sotto il profilo grafico grazie all’implementazione del ray tracing, al 4K e alla scelta tra le ormai consuete modalità fedeltà (4K nativo) o performance (4K upscalato).
The Dark Pictures Anthology: House of Ashes è una sorpresa sia in positivo sia in negativo. Da un lato abbiamo un’ottima ambientazione e una narrazione più concreta e brutale rispetto alle precedenti, fin troppo prevedibili e fondate su visioni o allucinazioni, così come un paio di personaggi sviluppati in modo davvero fluido e soddisfacente. Dall’altro, invece, diverse incertezze sul piano tecnico, con un’evidente situazione di uncanny valley, sporadici bug qua e là che rendono l’esperienza meno fluida e una storia alla quale sembrano mancare dei pezzi. Siamo di fronte a un capitolo strano, migliore dei precedenti per certi versi e peggiore per altri, qualcosa che non ci saremmo aspettati quantomeno sul piano ludico e tecnico – questo perché la narrazione, salvo difetti oggettivi, va sempre incontro alla soggettività di chi la vive e all’inclinazione verso un determinato sottogenere horror. Speriamo che il quarto, e forse ultimo, capitolo dell’antologia possa imparare davvero dai suoi predecessori. The Dark Pictures Anthology: House of Ashes è acquistabile da GameStop Italia. |
Commenti