News 18 Ott 2014

The Evil Within – Recensione

Brutta giornata per il Detective Sebastian Castellanos. Non che le premesse gridassero ad un pomeriggio memorabile: investigare su un omicidio plurimo all’interno del Beacon Mental Hospital, lugubre struttura abitata dagli svitati più violenti e pericolosi del paese, non è certo il modo migliore per ingannare il tempo. E ok che stiamo parlando di uno sbirro che sa il fatto suo, un veterano che dopo anni di servizio non si lascia certo impressionare da qualche millilitro di sangue, ma quello che si cela tra le mura dell’ospedale mentale (e non solo) va ben oltre l’immaginazione. O forse, è il caso di dire, va ben oltre il normale terrore: un male profondo, abissale, così cupo che pare volerti divorare l’anima per trascinarla in un incubo da cui non c’è risveglio. Un universo così violento, sanguinolento e malato che soltanto la mente di un genio dell’horror come Shinji Mikami poteva partorire e che, dopo un’attesa spasmodica, è finalmente pronto a contaminare i nostri sistemi di gioco. Spegnete le luci, sedetevi comodi e guardatevi le spalle un’ultima volta: perché una volta entrati nell’universo viscerale di The Evil Within, ritrovare la strada di casa sarà dannatamente dura. Almeno rimanendo tutti interi.

Affermare che il nuovo titolo di Bethesda e Tango Gameworks gronda sangue da ogni angolo rischia quasi di essere riduttivo. In The Evil Within troverete aree di gioco dove non esiste un solo centimetro quadro di parete privo di chiazze rosse, enormi vasche traboccanti sangue – al cui interno dovremo sguazzare come dei maiali nel fango – e parti smembrate di corpi umani accatastate in un angolo: e se sarete abbastanza sfortunati da incappare in un game over prematuro (cosa tutto tranne che rara, alla luce di una difficoltà sostenuta già a livello normale) potrete assistere ad alcune delle uccisioni più violente e agghiaccianti mai viste in un videogioco. La prima di queste non è nemmeno a dieci minuti dall’inizio del gioco, con Castellanos alla ricerca di un mazzo di chiavi per scappare da un mattatoio… umano. Attirate l’attenzione dell’enorme Macellaio – che ha appena scisso in due parti uno dei nostri compagni di “stanza” – e vedrete un’enorme ascia staccarvi brutalmente la testa dal collo. Collo che per tutta risposta spillerà copiosamente del sangue manco fosse una manichetta dei pompieri.

Come molti di voi avranno pensato osservando anche solo l’immagine di copertina del titolo, The Evil Within presenta tratti di DNA particolarmente affini a quelli di pellicole come HostelSaw o Martyrs, optando per un approccio più di impatto rispetto a quello adottato dai grandi classici del genere horror. Questo non significa che nel titolo di Mikami non ci sia spazio per qualche salto sulla sedia – anzi, rischierete l’infarto non appena udirete un “qualcosa” con qualche gamba in più dello stretto necessario urlare da dietro l’ennesima porta. Piuttosto, l’enfasi viene posta nella creazione di un mood angosciante e opprimente, dove il gore spinto al suo estremo fa da padrone e le stesse location appaiono così corrotte da destabilizzare la tranquillità del giocatore: sciami di scarafaggi, macchie più o meno fresche di sangue, cadaveri ridotti a brandelli e, cosa forse più importante, suoni disgustosamente reali. Non esagereremmo affatto dicendo che The Evil Within rappresenta la cosa più lugubre apparsa su console negli ultimi dieci anni.

Osservando l’ultima creatura di Tango Gameworks è difficile non tornare con la mente all’epopea di Resident Evil. Da un certo punto di vista si tratta di un volo pindarico quanto mai naturale, visto che oggi come allora a tessere le fila del terrore troviamo il mai domo Mikami – che, per i pochi ancora all’oscuro, è l’artefice del successo della celeberrima saga. Ciascun amante del survival horror che si rispetti non potrà non notare somiglianze sospette con le vecchie glorie del franchise, RE4 in primis: i nemici standard di The Evil Within, ad esempio, sono praticamente identici (nome a parte) ai Ganados incontrati da Leon Kennedy. C’è un boss con una motosega enorme, qualche nemico invisibile (e fastidiosissimo), cani deformi ed affamati, una magione lugubre infestata da trappole e piena di puzzle in perfetto stile Resident Evil – quelli in cui premere l’interruttore sbagliato farà precipitare dal soffitto una parete di enormi spuntoni. Parte delle analogie arrivano anche dall’allor rivale di Chris Redfield e soci, Silent Hill: l’esistenza di due dimensioni in perenne alternanza e il sistema di telecamere dal taglio spiccatamente cinematografico hanno ispirato non poco il lavoro di Tango, che crea una truculenta summa teologica del terrore moderno più riuscito dal forte retrogusto old school.

Perché è vero, la sensazione di deja vu si fa sentire in più di qualche frangente, ma il tocco del regista è innegabile. The Evil Within è un survival che strizza l’occhio ai capostipiti del genere, che ripercorre – con un po’ di ritardo – il solco tracciato dall’horror videoludico una manciata di anni fa donandogli una forma e una sostanza a metà strada tra il nuovo e vecchio. I più attempati si sentiranno a proprio agio nonostante l’eterna penuria di proiettili, mai abbastanza per fronteggiare l’elevato numero di nemici che pattugliano le varie locations. Le componenti principali del gameplay di The Evil Within non sono così innovative come avremmo sperato, ma si lasciano ben giocare pur nel loro ostentato classicismo. Classicismo che, dall’altro lato della medaglia, porta con sé alcuni fattori anacronistici a cui le attuali produzioni hanno da tempo trovato una soluzione.

Bastano una sedia o una cassa, ad esempio, ad interrompere l’incedere di Sebastian, i cui vestiti sembrano essere immuni al sangue nonostante i numerosi “bagni rossi” in cui il protagonista si ritroverà immerso. Altre volte le scelte da compiere sembrano prive di alcuna logica o comunque troppo “rigide”: un esempio lampante è la motosega, incapace di tagliare la porta di legno chiusa davanti a noi ma fondamentale per rompere una pesante catena di metallo, oppure l’utilizzo dei fiammiferi o delle torce raccolte dal suolo per bruciare i cadaveri dei nemici quando, lì intorno, di fuoco non ne mancherebbe affatto. Per non citare le armi aggiuntive, che Castellanos non raccoglie dai corpi dei nemici abbattuti ma trova all’interno di comode valigette metalliche.

A proposito di armi, ad aiutare il detective in questa missione infernale troviamo le bocche da fuoco più classiche (revolver e fucile a pompa) affiancate dalla Balestra Agonia, potente arma speciale che permette di scagliare dardi elettrificati, esplosivi o dotati di arpione per infilzare più nemici in linea. Ciascuna dotazione può essere upgradata e potenziata, allo stesso modo di alcune caratteristiche fisiche di Sebastian (salute, resistenza, mira) – un’opzione di cui parleremo a breve. Inoltre, il nostro alter ego potrà disarmare bombe, tagliole o altre trappoledisseminate lungo il percorso, raccogliendo così parti meccaniche con cui creare nuove frecce per la citata balestra. Trattandosi di location prevalentemente buie, la buona incidenza di queste trappole rende necessario, se non imperativo, muoversi sempre con circospezione, dedicando parte dell’esplorazione all’analisi dei potenziali rischi, per poi valutare se rimuoverli o sfruttarli a proprio vantaggio: le mine esplosive, infatti, esplodono tanto al nostro contatto quanto a quello dei nostri inseguitori.

Le canne da fuoco non esauriscono la componente offensiva di Sebastian, che può comunque sferrare colpi a mani nude (non molto efficaci, ma trasformare la necessità in virtù è un compromesso con cui dovrete scendere spesso a patti), usare le armi da taglio raccolte dai corpi avversari, trasformare le fiaccole in letali esecuzioni incendiarie e, non ultimo, sfruttare le bottiglie di vetro come diversivo per attirare l’attenzione nemica verso un punto lontano. Come dicevamo prima, il combattimento melee riveste un ruolo primario nell’economia di The Evil Within, specie se affrontato a difficoltà maggiori: i proiettili non mancano, ma non saranno mai nemmeno lontanamente sufficienti a garantirvi una carneficina. Bisogna dunque centellinarli, in favore di un approccio più oculato e, all’occasione, alternare qualche passo stealth ad una meno lodevole fuga. Oppure sfruttare particolari elementi di scena (come le trappole ad interruttore o i barili infiammabili) per eliminare più minacce in un sol colpo mantenendo intonso il caricatore.

I vari livelli sono pieni di hot spot dove nascondersi (armadi, fessure tra i muri, letti) in modo analogo a quanto visto nel primo Amnesia. I nostri inseguitori saranno abbastanza tenaci nella ricerca, ma qualora doveste sfuggire alle loro grinfie e uscire dal nascondiglio alle loro spalle potrete sempre eliminarli con un colpo silenzioso ravvicinato (generalmente, una coltellata alla testa). Finito? Tutt’altro. I mostriciattoli vestiti di filo spinato e schegge di vetro spediti al tappeto non saranno mai morti del tutto sino a quando non ne brucerete il corpo con i (pochi) fiammiferi in vostro possesso – inizialmente sarà possibile portarne con sé un massimo cinque, ma potrete ampliare lo slot relativo sino a contenerne in abbondanza. Bruciarli è una scelta che spetta al giocatore e non è obbligatoria: ricordate però che più si procede nell’avventura, maggiore è il rischio di improvvise rinascite.

La difficoltà generale, dicevamo, tutto fa tranne che strizzare l’occhio ai meno esperti. I nemici, oltre che essere in schiacciante superiorità numerica, sono abbastanza intelligenti e presentano un’innata tendenza ad accerchiare Castellanos in gruppo, per poi colpirlo ripetutamente. Il sistema di salvataggio sembra pensato apposta per gli hardcore gamers, dal momento che non sarà possibile salvare manualmente a proprio piacimento ma soltanto dopo aver trovato delle apposite stanze equipaggiate con uno specchio magico.Premesso che il titolo presenta comunque una funzione di autosalvataggio tutto sommato ragionevole, che scongiura il rischio di dover ripetere sessioni di gioco troppo lunghe (boss fights a parte), proprio lo specchio di cui sopra rappresenta una delle trovate più curiose del titolo di Mikami. Basta fissarlo qualche secondo per ritrovarsi all’interno di un ospedale controllato da una sola, stranissima infermiera che, oltre a dare la possibilità di salvare i propri progressi, permette di accedere alla peculiare “sedia dei potenziamenti” tramite la quale aumentare le proprie statistiche, la capacità e la potenza delle armi da fuoco e, non ultima, la capacità degli slot contenenti i vari items (siringhe curative, fiammiferi, bombe a mano). Ogni potenziamento ha chiaramente un prezzo, un quantitativo variabile di strana sostanza verdognola racchiusa in barattoli che infesta i vari scenari e che può essere raccolta dai corpi dei nemici caduti. Sempre in questo insolito limbo, infine, sarà disponibile un piccolo obitorio le cui celle possono essere aperte con delle apposite chiavinascoste in alcune statuine lungo tutti i livelli di gioco. Ciascuna cella frigorifera contiene armamenti, munizioni o ulteriore “moneta di gioco” utile ad affinare le proprie stats.

Da un punto di vista tecnologico, il titolo impressiona per un sistema di illuminazione esemplare, un ottimo utilizzo degli effetti particellari e, cosa non meno importante, per l’adozione di un insolito formato 2.35:1indubbiamente azzeccato sotto il profilo della spettacolarità. I più critici lamenteranno uno spazio di visuale ridotto causa l’introduzione delle bande nere orizzontali, ma non lo riteniamo così pesante da inficiare l’esperienza di gioco. Sicuramente più fastidiosi sono i fenomeni di pop-in riscontrati su PS4, con parte delle texture caricate in visibile ritardo rispetto alla restante scena e, soprattutto nei livelli iniziali, dei rallentamenti un po’ troppo evidenti – che fortunatamente si stabilizzano dopo le prime due ore di gioco, a vantaggio di una fluidità complessivamente stabile. Se da un lato la redistribuzione dei poligoni appare un po’ imparziale, con un protagonista dettagliatissimo ed espressivo contrapposto a dei comprimari buoni (Leslie e i suo dottore, Julie e Joseph), ma non certo allo stesso livello, dall’altro possiamo solo applaudire alla direzione artistica dettata da Mikami, che fotografa una nostalgica passeggiata tra magioni infestate, cimiteri, chiese abbandonate e villaggi appestati da creature non morte con un filtro sporco e rumoroso, che priva di luce e brillantezza ogni colore presente su schermo amplificando la sensazione di angoscia e oppressione. E ammettiamolo, riesce almeno in parte a coprire alcune imperizie tecniche magari non capitali (il lip-sync, ad esempio, non è sempre reattivo come vorremmo) ma comunque presenti.

Ottima invece la prova del comparto audio. La colonna sonora di The Evil Within stupisce più per i propri silenzi che per note nitide e distintive, e lascia furbescamente spazio alle grida dei nostri inseguitori e ai rantoli affannosi di Sebastian per poi stupire con qualche intenso passaggio di musica classica, a cui si alternano tonfi e rumori sgradevoli realizzati alla perfezione al punto da destabilizzare la tranquillità di chi gioca. Buono anche il doppiaggio in lingua italiana, anche se, per l’ennesima volta, il voice over originale si assesta su livelli superiori.

In Conclusione …

Abbiamo aspettato a lungo, ma alla fine Shinji Mikami non tradisce l’appuntamento. Con The Evil Within il leggendario designer/producer nipponico torna sotto i riflettori con un horror che non si vedeva da tempo, cupo, esistenziale, efferato nella sua brutalità. Non si tratta più di limitarsi a spaventare il giocatore con creature violente, situazioni grandguignolesche o altri espedienti più o meno semplicistici: Mikami vuole turbare il giocatore, colpirlo senza pietà al centro dello stomaco e instillargli nella mente inquietudine e dolore profondo. E ci riesce alla perfezione, facendo affiorare un’opera trasversale che ricongiunge idealmente gli stilemi dell’horror americano più recente (alla Dead Space, per capirci) a quelli più visionari e malati della tradizione del Sol Levante (Resident Evil e Silent Hill in primis), rubando persino qualche appunto anche alla più riuscita cinematografia del settore. The Evil Within racchiude quindici anni di storia del survival horror in poco meno quindici ore di gioco. E la magia funziona ancora, forte di atmosfere estranianti e terrificanti, una sceneggiatura ardita ma complessivamente piacevole e, cosa più importante, un gameplay capace di combinare con esperienza l’action allo stealth, la risoluzione di enigmi alla classica esplorazione attraverso i passi pesanti di Sebastian, quel suo incedere perennemente claudicante ed incerto che, allora come oggi, trasmette un insano senso di precarietà.

Quella che è la grandezza dell’operato di Mikami, al contempo, è anche parte della propria rovina. Difficile, se non impossibile, non avvertire un retrogusto di già visto o provato in questa nuova avventura nei baratri più profondi della follia. The Evil Within non è un campione di innovazione per propria natura, e un affezionato di lunga data dell’orrore digitale difficilmente vi troverà spunti davvero inediti. L’animo old school si fa sentire in scelte spesso opinabili e in situazioni discutibili: uno sbirro incapace di correre per più di quattro secondi senza dover riprendere fiato, ad esempio, oppure una certa linearità negli scenari proposti, articolati in livelli sequenziali e autoconclusivi. Sotto questa luce, l’ultima creatura di Tango Gameworks rappresenta una sorta di evoluzione di Resident Evil 4, forse addirittura il RE4 che Mikami avrebbe voluto realizzare ancora nel lontano 2005 e che i limiti tecnologici del tempo gli hanno impedito di portare a compimento.

Alla luce di questo, i tempi di caricamento alle volte eccessivi (ve ne accorgerete facilmente all’ennesimo game over) e un comparto grafico interessante ma non certo esente da difetti passano quasi in secondo piano. The Evil Within è un horror senza compromessi, un vortice di follia e violenza esasperata figlio del proprio tempo che, a patto di accettarne le intrinseche limitazioni, saprà incollare magneticamente allo schermo sino alla sua fine. Sempre se per questi mali esista davvero una fine: ma questo fareste bene a chiederlo a quel genio di Shinji Mikami.

Voto: 8/10

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