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The Inpatient – Recensione

Tra tutti i titoli della nuova line-up di PS VR, The Inpatient rappresenta senza dubbio una delle esclusive più attese dai possessori del visore di casa Sony. Vuoi perché l’horror in realtà virtuale ha sempre un fascino non certo trascurabile (e il successo oceanico di Resident Evil VII, ad un anno esatto di distanza, parla ancora chiaro), vuoi perché con quell’Until Dawn i ragazzi di Supermassive Games erano riusciti abbondantemente a solleticare la nostra curiosità, le aspettative su questo insolito prequel incentrato sui terribili eventi che mezzo secolo fa hanno infestato le pendici di Blackwood Pines erano comprensibilmente alte. L’evoluzione tecnologica dei giochi VR da un lato e, dall’altro, il biglietto da visita di uno sviluppatore tutto tranne che estraneo al mondo della VR, hanno giocato a favore di The Inpatient sin dal suo annuncio, creando un hype davvero ragguardevole – almeno per un titolo esclusivamente VR – che, dopo il primo rinvio del gioco (previsto originariamente lo scorso novembre) non ha dato cenno di affievolirsi.

E lo ammettiamo, dopo la nostra prima prova in occasione dello scorso E3 in compagnia di The Inpatient eravamo davvero impazienti di mettere le mani sul prodotto definitivo. Un prodotto che, dalle primissime impressioni, sembrava capace di mescolare un’atmosfera asfissiante ad un comparto grafico interessante e, cosa ancor più fondamentale, ad una narrazione su più binari profonda ed articolata. Dopo aver trascorso un intero weekend in compagnia di Bragg e soci presso le accoglienti pareti del Blackwood Sanitarium, un po’ a malincuore, abbiamo dovuto ridimensionare leggermente le nostre aspettative sull’esclusiva targata Supermassive Games. Un’avventura in realtà virtuale assolutamente meritevole, giocabile e a tratti inquietante, ma meno “sconcertante” (in termini positivi) di come la nostra primissima mezz’ora ce l’aveva fatta intravedere. The Inpatient, insomma, è indubbiamente un acquisto imprescindibile per i possessori di PS VR alla ricerca di qualche brivido lungo la schiena: ma considerando le potenzialità del brand e della sua angosciante location, a ben vedere, ci saremmo aspettati qualcosina di più.

The InpatientSenza scendere troppo nel dettaglio tratteggiamo i punti principali della narrativa di The Inpatient, che come anticipato in apertura si colloca grossomodo una cinquantina d’anni prima degli accadimenti di Until Dawn sfruttando il tetro teatro del Blackwood Sanitarium – un vecchio manicomio, vi foste persi la precedente esclusiva Supermassive Games, chiuso prematuramente attorno agli anni ’50 in seguito ad uno scandalo avvolto nel mistero. Uno scandalo legato ad un gruppo di minatori locali, recuperati dopo quello che all’apparenza potrebbe essere etichettato come un “normale” incidente di lavoro ma, alla pratica, ben più delicato e pericoloso: del resto, per quale motivo dei minatori feriti dovrebbero essere rinchiusi all’interno di un manicomio al cui interno, si vocifera, vengono condotti esperimenti psichiatrici non propriamente etici? In questo contesto si muove il nostro alter ego, rinchiuso tra le strette pareti del Blackwood per motivi a noi ignoti, celati da una profonda amnesia per la quale non sembra esserci cura: un soggiorno “forzato” destinato a prendere rapidamente una piega letale, quando una potente maledizione si diffonde tra gli angusti corridoi seminando sangue e morte. Ed è proprio in questi corridoi che, visore in testa, dovremo districarci sino a raggiungere la salvezza: il tutto, se possibile, gettando una flebile luce sulle ombre che avvolgono Bragg e la sua struttura.

La struttura ludica di The Inpatient, al netto dell’introduzione della Realtà Virtuale, non si discosta di molto da quella di Until Dawn – rispetto alla quale, tutto sommato, appare forse leggermente semplificata. L’esperienza di The Inpatient è per certi versi affine a quella di un walking simulator, al cui interno sarà richiesto di muoversi linearmente da un punto ad un altro della location cercando di reperire quante più informazioni possibili. I Totem di Until Dawn vengono sostituiti da una trentina circa di Ricordi, oggetti speciali disponibili nello scenario che, se identificati, scateneranno un flashback fugace sul passato del nostro alter ego: nulla che pregiudichi il normale svolgimento del gioco ma, a ben vedere, se vorrete capire qualcosa di questa storia una volta raggiunti i credits fareste bene ad aguzzare leggermente lo sguardo. Il grosso dell’azione di gioco viene ancora una volta espletato dal sistema di dialoghi a scelta multipla, legato a doppia mandata all’oramai iconico Butterfly Effect: ogni nostra scelta avrà un effetto differente sull’evoluzione dei rapporti con gli altri NPC e sulla narrazione stessa. Rispondere in modo freddo o distaccato, piuttosto che accomodante e amichevole, ci potrà rendere sospetti o addirittura pericolosi agli occhi di altri, il che potrebbe essere “problematico” quando la situazione si fa delicata. Questo, almeno sulla carta, l’obiettivo degli sviluppatori – che, in Until Dawn, avevano dato mostra di un’ottima padronanza nella gestione dei bivi decisionali: diciamo che in The Inpatient, vuoi per la longevità decisamente più risicata, vuoi per la presenza di un solo personaggio giocabile, gli effetti del Butterfly Effect sono decisamente meno evidenti.

The InpatientDei sei Butterfly Effect disponibili nelle quattro ore circa di playthrough, nessuno è davvero in grado di regalare quel nesso di “causalità” che avevamo respirato su PS4 mesi addietro con Until Dawn: non siamo certo di fronte ad una banalizzazione del marchio di fabbrica dello sviluppatore, questo è chiaro, ma l’impressione di fugacità e, a tratti, di “frettolosità” in alcune delle logiche narrative di Supermassive si respira pesantemente, specie nella seconda metà del titolo. Titolo che vanta un’atmosfera sensazionale nelle battute iniziali, quando ci troviamo a vagare all’interno di un manicomio abitato da cadaveri e “scosso” da grida, ringhi e rumori minacciosi in lontananza: non mancano certo jumpscares piazzati con sagacia, alcuni dei quali capaci di farci letteralmente saltare sulla sedia, e altre trovate sceniche rese ancor più interessanti dall’utilizzo del DualShock 4 come flebile torcia per illuminare l’oscurità. Peccato che, superato lo stupore iniziale, The Inpatient si riduca ad una passeggiata lungo scenari talmente bui da renderne difficile l’identificazione, un walking simulator al chiarore della torcia nemmeno troppo agghiacciante dove non avremo mai davvero il polso della situazione e la nostra interazione, a meno dell’analisi di pochi oggetti speciali e dell’apertura di qualche porta, si riduce all’osso. La linearità della progressione risulta evidente: il che, trattandosi di un’esperienza “only VR” potrebbe anche aver senso, se solo il supporto narrativo fosse all’altezza.

Un’avventura in realtà virtuale meritevole, giocabile e a tratti inquietante

Ed è questo il problema principale di The Inpatient: narrativamente, siamo di fronte ad un racconto davvero troppo superficiale, che si limita soltanto a “citare” quegli eventi che i giocatori di Until Dawn hanno già sentito una volta, ma senza approfondirne la causa scatenante. In sostanza, sappiamo che ci sono i Wendigo, ma sulla loro origine, sul perché popolino quella montagna e quale sia il loro nesso con la ricerca di Bragg e dell’intero Sanatorio vengono abbozzati soltanto appunti, informazioni fugaci che non convergono mai verso nulla di concreto. Per chi si avvicinasse al franchise proprio con The Inpatient, raggiungere i credits con moltissimi dubbi e poche (se non nulle) certezze è più di un semplice rischio, con un conseguente senso di inconsistenza che pervade l’intera esperienza. L’assenza di colpi di scena davvero significativi non aiuta certo la trama a decollare: ci prova un set di finali multipli, ancora una volta estremamente semplificati rispetto a quanto visto nel capitolo principale e, paradossalmente, legati più a specifiche “azioni” estemporanee che a scelte installate in un meccanismo di causa effetto – diciamo che, senza fare eccessivo spoiler, la vostra velocità nel pigiare un opportuno tasto potrebbe costarvi un trofeo d’Oro particolarmente ambito. Nulla, lo ribadiamo, che pregiudichi il playthrough complessivo, che comunque si rivela piacevole e coinvolgente – almeno in termini di VR: resta l’amaro in bocca, quello sì, per un potenziale sfruttato solamente in parte.

The InpatientDa un punto di vista schiettamente tecnologico, The Inpatient risulta convincente e solido. Il senso di profondità legato all’esperienza VR è tanto affascinante quanto ben realizzato, e superato il senso iniziale di smarrimento si ha davvero l’impressione di essere impotenti pazienti dei tetri corridoi del Blackwood. La possibilità di parametrizzare la rotazione della telecamera in prima persona, che può essere libera o demandata al meccanismo dello stutter-turn, dovrebbe rendere più leggera l’esperienza ai giocatori più sensibili alla chinetosi, anche se – vale la pena sottolinearlo – anche dopo prove intensive con The Inpatient non siamo mai incappati in problemi di sickness evidenti. Buona la modellazione dei personaggi, nonostante l’espressività facciale in alcune occasioni lasci un po’ a desiderare (specie in alcuni frangenti, dove l’impressione di trovarsi accerchiati da dei manichini è particolarmente forte), decisamente più interessante il level design – che, come già accennato, è maestoso in apertura di gioco per poi finire mascherato da un’eccessiva oscurità, contro cui la nostra fida torcia può ben poco. Nel complesso, dunque, The Inpatient è gradevole allo sguardo e capace di “catapultare” l’utente nel vivo della follia del Blackwood, al netto di un sistema di controllo forse troppo lento e, in presenza di piccoli ostacoli, eccessivamente macchinoso. Ok che in un manicomio ci si deve muovere con cautela, ma quando hai la morte alle calcagna, forse, sarebbe il caso di rinunciare a qualche convenevole.

Conclusioni

Chi vi scrive, senza inutili giri di parole, attendeva con trepidazione The Inpatient grossomodo dallo scorso giugno, quando Supermassive Games, un po’ a sorpresa, ruppe il silenzio con una velocissima demo giocabile – che, manco a farlo apposta, complice l’amore per Until Dawn colpì dritta al centro. Ecco spiegato perché, nell’arco di un weekend, ci siamo infiltrati nei corridoi del Blackwood a più riprese, cercando di sbloccare ogni finale disponibile addentrandoci il più possibile in quella che, sulla carta, sembrava configurarsi come una storia memorabile. Non senza un pizzico di amaro in gola ci troviamo oggi a dover smentire parte delle nostre altissime aspettative: The Inpatient è indubbiamente un tassello imperdibile per gli amanti dell’horror virtuale, ma è sicuramente meno “impressionante” di quello che avevamo predetto soltanto una manciata di mesi addietro.

Con una componente tecnologica forte, nonostante alcuni impicci del sistema di controllo e alcune animazioni rivedibili, l’ultima creatura dei ragazzi di Supermassive Games scivola su una narrazione che proprio così di impatto non è, troppo fugace e meno approfondita di quanto il background di Until Dawn avrebbe meritato. Buono lo schema ludico, seppur le semplificazioni in questa transizione VR siano evidenti, e ottima l’atmosfera generale – nonostante un calo, nella seconda metà, dove la linearità del walking simulator la fa da padrona. Un’esperienza che i possessori di PS VR dovrebbero assolutamente vivere, ma dalla quale – in tutta onestà – ci saremmo aspettati un pizzico di grinta in più. L’impazienza, del resto, non sempre è buona consigliera.

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