23 Mag 2023

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – Recensione

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, che potete acquistare nel giro di un paio di click su GameStop grazie a questo link, molto più di Breath of the Wild, si ricollega direttamente al capitolo originario della saga, titolo che Shigeru Miyamoto utilizzò per mettere in discussione, e di fatto distruggere, le consuetudini, i pilastri, i canoni che lui stesso aveva concorso ad instituire e fortificare.

Laddove Super Mario proponeva una struttura ragionata, cadenzata, relativamente lineare e prefissata, una filosofia che trova il corrispettivo più diretto nello scrolling laterale unilaterale ed irreversibile, il Link del 1986, anno di pubblicazione del primo capitolo del brand Nintendo, rappresentava a tutti gli effetti l’anarchia assoluta, lo sperimentalismo estremo, la libertà totale a cui ogni videogioco (apparentemente) aspira.

A conti fatti, da allora un tale coraggio, una spinta così decisa verso la rottura totale delle fondamenta del videogioco, fondamenta composte da fitte regole ed infrangibili precetti, non c’è più stato. A Link to the Past, a confronto, era molto più razionale e prevedibile del primissimo The Legend of Zelda che, dal canto suo, proponeva alcuni enigmi semplicemente irrisolvibili senza contare anche su un pizzico di fortuna, oltre che su un numero a tratti spropositato di tentativi.

Gli stessi capitoli in tre dimensioni, a partire da Ocarina of Time, sino a Skyward Sword, non hanno fatto altro che proporre, in termini ovviamente differenti, tutto ciò di cui Super Mario è sempre stato promotore. Ovvero una struttura che, per quanto “open”, prevedeva in fondo un’unica risoluzione, un unico sentiero, un unico pattern possibile. Breath of the Wild, da questo punto di vista, si è rivelato un primo, reale tentativo di scardinare il concetto di linearità applicata alla progressione dell’avventura. Link poteva teoricamente affrontare la Calamità sin dall’avvio, smarcandosi completamente dagli obblighi legati ai Colossi o a qualsiasi altra quest affrontabile nella gigantesca Hyrule disegnata letteralmente a mano dai designer di Nintendo.

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, in questo senso, rappresenta la definitiva rottura, l’anarchia di cui sopra, finalmente libera da qualsiasi tipo di scorrettezza nei confronti del videogiocatore, ma, anzi, totalmente declinata e rivolta ad offrire all’utente quanta più libertà di approccio possibile.

Non ci dilungheremo in questa sede ad elencare usi ed effetti dei nuovi poteri di cui gode Link, per questo potete consultare la nostra mini FAQ o l’anteprima di qualche giorno addietro, ma il disgregamento del concetto classico di level design, obiettivo principale ed abbastanza dichiarato di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, passa principalmente attraverso il loro utilizzo.

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, molto più del suo lontano genitore del 1986, oltre ad essere estremamente democratico è anche faustiano nel pieno senso del termine

La magia di questo titolo, su cui sarebbe fin troppo facile, per quanto assolutamente coerente, spendere aggettivi come magistrale e monumentale, consiste proprio nel suo perfetto equilibrio, nella sua capacità di non scadere mai nella cacofonia ludica, nel caos di un’intelligibilità decifrabile solo da pochi. The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, molto più del suo lontano genitore del 1986, oltre ad essere estremamente democratico è anche faustiano nel pieno senso del termine. Spinge quanto mai alla sperimentazione e al tempo stesso si configura come una produzione globale, onnicomprensiva, universale.

Molto più che in Breath of the Wild, sfruttando i nuovi poteri, costruendo meccanismi di ogni genere e scovando sentieri alternativi, si può approcciare alla stessa situazione, allo stesso ostacolo, in una moltitudine di modi, tutti validi, pur con un differente grado di efficienza. Ad impedire al gioco di scadere nell’incomunicabilità, nell’elitarismo che avrebbe impedito al gioco di essere fruibile ad una moltitudine di utenti, ad appannaggio di una ristretta cerchia di appassionati di crafting e di chi ama usare in ogni situazione la materia grigia per avere la meglio, la sottile, eppur evidente mano degli sviluppatori che suggeriscono (quasi) sempre almeno una via da seguire per venire a capo dalla difficoltà di turno.

Giunti di fronte ad un accampamento di Boblin, per fare un esempio pratico, l’approccio diretto e sfrontato, fatto per lo più di combattimenti serrati ed azione adrenalinica, è sempre possibile. Eppure, esplorando, aguzzando la vista, saggiando costantemente le potenzialità delle risorse in proprio possesso, esiste sempre (almeno) una strategia più brillante e meno rischiosa con cui eliminare, o evitare, ogni avversario presente. The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom spinge alla sperimentazione, ma non la rende mai obbligatoria.

Proprio concedendo questa estrema, tangibile e comprovata libertà all’utente, la produzione opera alla sua stessa decostruzione, ridefinendo i cardini del level design classicamente detto. Se il già permissivo Breath of the Wild concedeva all’utente soluzioni fuori dagli schemi, i nuovi poteri e la tecnologia Zonau amplificano a dismisura il concetto, rendendo possibile la rottura del gioco non solo nella sua progressione, ma in ogni singola scelta compiuta dal videogiocatore, dallo svolgimento delle quest, alla risoluzione di ogni singolo enigma, passando per la modalità con cui si possono affrontare i nemici e persino i boss, che tornano in pompa magna, anche con pattern offensivi davvero originali, ovviando così ad uno dei principali limiti del diretto prequel.

Una trama emozionante, coinvolgente, sviluppata attraverso numerosi dialoghi e cut scene

Anche la reintroduzione dei dungeon, concessione che non potrà che fare la gioia dei fan di lungo corso, segue lo stesso concetto: lineari come da tradizione, finché non si sceglie di fare di testa propria, finché non si trova il modo di infrangere gli schemi, facendo precipitare il gameplay in un caos, in un’anarchia (ancora una volta) quasi inspiegabilmente controllata, concessa, voluta dagli stessi sviluppatori che pur hanno creato regole ferree, ostentate dal coerente e granitico motore fisico che sorregge l’intera esperienza.

Ovviamente tutto ciò avrebbe poco senso senza una Hyrule che funge da perfetto sandbox di un’avventura sempre stimolante e ricca di spunti. In questo senso, il lavoro di level design è da annali, degno di passare giustamente alla storia. Se è innegabile che parte dello scenario sia enormemente debitore nei confronti di Breath of the Wild, il triplice intervento di rinnovamento alla mappa è tale che i déjà-vu non appesantiscono la progressione, ma paradossalmente la arricchiscono regalando piacevoli citazionismi e tributi a chi ha imparato a conoscere piuttosto bene la Hyrule del 2017.

Da una parte, difatti, la maggior parte delle zone già viste presentano evidenti modifiche, rendendo la (ri)esplorazione tanto più necessaria ed intrigante, volta spesso proprio a scovare queste piccole novità che si attualizzano in sacrari inediti, Korogu nascosti in ogni dove, elementi morfologici che hanno cambiato la conformazione di ampie aree. Dall’altra, la presenza dell’arcipelago di isole fluttuanti, oltre a far correre nostalgicamente la memoria alle bellissime traversate oceaniche di The Wind Waker, spinge l’acceleratore sulla risoluzione di enigmi ambientali a tratti geniali. Infine, come ormai noto, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom si sviluppa anche sottoterra. Sia tramite grotte dalle dimensioni più contenute, generose di loot e mini boss, sia tramite zone ben più ampie, quasi legate a doppio filo ad un ecosistema in(ter)dipendente fatto di sfide complesse, quest, luoghi difficili da raggiungere e ovviamente avversari particolarmente coriacei, un mondo tutto da scoprire, attorno cui si attorciglia buona parte dell’intreccio narrativo.

Il lavoro di level design è da annali, degno di passare alla storia

Sì, perché nel suo essere un’opera faustiana, nel superare nettamente il predecessore, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom si fregia anche di una trama emozionante, coinvolgente, sviluppata attraverso numerosi dialoghi e cut scene. Più di ogni altra cosa, al contrario dell’epilogo (giustificatamente) anti-climatica del prequel, assisterete ad una conclusione quanto mai soddisfacente, ricca di implicazioni, persino aperta a molteplici interpretazioni che finiranno ovviamente per arricchire la lore della saga, che già vive tantissimo del contributo attivo dei fan.

The Legend of Zelda Tears of the Kingdom

In ultima analisi, non si può non riservare un commento al comparto grafico, aspetto certamente ambivalente, in termini assoluti, (anche giustamente) chiacchieratissimo dall’utenza. È innegabile che Nintendo Switch stia mostrando tutti i limiti del caso, che su un hardware più performante avremmo sicuramente fruito di uno spettacolo ancora più convincente, che il pop-up in alcuni casi sia invadente, così come si noti una certa mancanza di dettagli in alcuni scenari.

Una produzione globale, onnicomprensiva, universale

Eppure, è impossibile non applaudire alla maestria degli sviluppatori che sono riusciti a proporre un’esperienza letteralmente gigantesca ed estesa in una console ibrida con ormai numerosi anni sul groppone. Anche il frame rate è quasi del tutto esente da chissà quali critiche, dal momento che gli unici momenti di reale imbarazzo sono individuabili nell’attivazione di alcuni poteri, Ultramano su tutti, in cui il motore fisico e grafico vengono chiaramente chiamati ad uno sforzo ulteriore.
Inoltre, la vivacità del comparto artistico è tale da regalare non solo scorci indimenticabili, ma anche scenari, nemici, NPC, strutture di una bellezza e originalità impareggiabile.

Conclusioni

The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom è anarchico senza essere caotico, vasto ma non disorientante, sfaccettato ma non per questo ridondante. L’opera faustiana di Nintendo si configura come il perfetto sequel del primissimo The Legend of Zelda, più di quanto non lo sia di Breath of the Wild, a cui pur deve ovviamente moltissimo e a cui è intimamente legato sul fronte narrativo.

La sua capacità di ridiscutere, distruggere e ricostruire il concetto globalmente applicato di level design, passerà alla storia e consegna agli utenti un’avventura originale, sempre stimolante, ovviamente estremamente longeva. Tra questi, tesori da scovare, boss nascosti e una mappa che si estende su tre diversi livelli, avrete a che fare con un gioco che potenzialmente vi terrà occupati per non meno di un centinaio di ore.

I nuovi poteri, unitamente al solito combat system, ulteriormente stratificato da feature come il Compositor, tracciano i contorni di una struttura ruolistica e insieme action capace di imbrigliare nella sua trama i fan di entrambi i generi, soprattutto a fronte della totale libertà d’azione consegnata al videogiocatore, che in qualsiasi momento può modellare a piacimento l’esperienza in base ai propri desideri.

Un gioco che rompe sé stesso, creando qualcosa di unico, mai visto prima, imperdibile. Non giocarlo è il più grande dispetto che potreste farvi da videogiocatori. Un capolavoro in ogni ambito, che si merita un dieci tondo, tondo, anche per l’impatto culturale che sta avendo e che avrà negli anni a seguire.

Puoi acquistare The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom su GameStop!