Colonia – Vi sfidiamo a trovare un gioco più “carino e coccoloso” di The Swords of Ditto. I roguelike, solitamente, sono cattivi, punitivi, e fanno di tutto per complicare la vita al giocatore e per rovinargliela in ogni modo, strappandogli via minuti, se non ore, di fatica ed esplorazione. Sembra quasi che siano geneticamente studiati per farlo.
The Swords of Ditto, realizzato da onebitbeyond sotto l’egida dei sempre più grandi (in ogni senso) Devolver Digital, ci ricorda che i giochi appartenenti a questa categoria sempre più inflazionata possono anche possedere un briciolo di bontà e dolcezza: il nostro eroe senza nome, sempre diverso dopo ogni Game Over, può infatti ricaricare la salute mangiando dei biscotti. E la concezione di co-op del team londinese (rigorosamente offline, drop-in/drop-out senza troppi fronzoli) è un monumento all’amicizia: se uno dei due giocatori muore, l’altro può dargli un abbraccio poderoso per rialzarlo, cedendogli metà della sua energia; gli oggetti che ripristinano la salute curano entrambi; l’entrata in partita di un nuovo giocatore non aumenta il tasso di difficoltà (tranne nelle boss fight); e infine, nel caso di abbandoni improvvisi, tutto ciò che è stato recuperato da uno, finisce nelle tasche dell’altro rimasto in partita.
Perché d’accordo, il bello dei roguelike risiede nella loro difficoltà, e The Swords of Ditto, sotto la sua splendida superficie fatta di zucchero, canditi e uno stile artistico dolce ed irresistibile che flirta pericolosamente con la stramberia di Adventure Time (su ammissione dello stesso team), di difficoltà ne nasconde a pacchi, ma un po’ di tenerezza non ha mai ammazzato nessuno, anzi. E l’obiettivo di onebitbeyond è quello di offrire un’esperienza appagante, ma al contempo abbordabile, adatta anche ad un bambino.
Non che sia una passeggiata di salute, sia chiaro: un numero esagerato di morti lascia un impatto evidente sul mondo (generato casualmente, come buona parte dei dungeon e delle aree nascoste al loro interno come scatole cinesi), peraltro influenzato anche dal ciclo giorno/notte, con stravolgimenti nella composizione dell’hub principale, un villaggio in cui fare rifornimento, acquistare adesivi (che aggiungono bonus a gambe, braccia e testa del personaggio) e potenziare giocattoli (armi secondarie di ogni genere, come mazze da golf, archi o piedoni giganteschi e pelosi che schiacciano con prepotenza gruppi di nemici), così come nella presenza di determinate tipologie di nemici, NPC e persino missioni.
Bisogna quindi padroneggiare quanto prima il combat system, molto godibile nella sua estrema semplicità, e i peculiari puzzle nascosti nei dungeon, che sarà possibile completare anche in solitaria, ma in due, come spesso accade, ci si impiega meno tempo e ci si diverte molto di più. Quest’ultimi prevedono di passare da una dimensione della realtà all’altra, una attribuita al colore (e ai bottoni) rosso e uno al blu: in base alla dimensione in cui ci si trova, i muri si alzeranno o abbasseranno, garantendo così l’accesso ad aree ed interruttori, e anche i nemici potrebbero apparire e scomparire. Starà quindi al giocatore decidere se saltare da una dimensione all’altra e ripulire ogni singolo dungeon, così da raccogliere quante più monete possibili, o se dedicarsi esclusivamente alla ricerca della chiave della sala del boss. Quest’ultimo, sempre in maniera casuale, potrebbe rivelarsi essere lo spirito di uno nostri precedenti eroi morti in battaglia, riportato in vita dalla strega Mormo: è l’entità malvagia che dovremo affrontare, unico punto fermo nella nostra avventura in continuo cambiamento, scritta e plasmata interamente da noi e dalla nostra bravura (completando una run – dalla durata di circa due-tre ore – i futuri eroi avranno dei boost, ad esempio).
A restare, come ricordi indelebili, sono invece gli eroi scomparsi, i nostri precedenti protagonisti di cui perderemo equipaggiamento e quant’altro, ma la loro memoria resterà con noi in eterno: all’inizio di ogni nuova partita, dovremo pregare presso il monumento in loro onore, posto al centro dell’hub/villaggio principale, mentre in una apposita struttura sarà possibile consultare un enorme libro, una cronaca di tutte le loro gesta.
A convincerci un po’ meno del roguelike di onebitbeyond è, nonostante della sana nostalgia non faccia mai male, il suo strizzare continuamente l’occhio, tanto nella grafica quanto nelle meccaniche, ad altre opere, a partire da The Legend of Zelda: A Link to the Past, il riferimento più palese: combat system, animazioni (provate ad alzare un’anfora e a lanciarla, ndr), e citazioni a tratti ai limiti del plagio. Anche il comparto grafico non scherza: come detto è irresistibile, ma alcuni elementi sanno di già visto, mentre altri non godono di un design così ispirato, e la generazione randomica rischia di appiattirlo ulteriormente. La paura più grande riguarda però la componente puramente ludica, ed è sempre il fattore casuale a spaventarci: di esempi negativi giocati in passato potremmo citarne decine, e per quanto il team ci abbia assicurato che la composizione dei livelli dei dungeon non faccia affidamento interamente alla casualità, ma vada comunque a pescare asset preconfezionati da loro, la paura di ritrovarci ad affrontare livelli tutti uguali è sempre in agguato. La speranza è che quando The Swords of Ditto uscirà agli inizi del 2018 (e per fortuna: tre crash durante una sessione di gioco non sono un buon segno, ma c’è tutto il tempo per correggere i bug) su PS4 e PC, dimostrerà di aver appreso le lezioni impartite dalle batoste prese da altri titoli e sviluppatori.
In conclusione
Di roguelike ne escono a palate, ma pochi possono offrire uno stile tenero e delizioso quanto quello di The Swords of Ditto: non reinventerà il genere, e anzi, rischia di fare troppo affidamento a capisaldi del passato (e non solo del mondo videoludico), ma il suo tentativo di offrire un’esperienza meno estenuante, eppure ugualmente appagante, lo potrebbe rendere il perfetto titolo entry-level per tutti quei giocatori che hanno sempre voluto provare un roguelike, salvo andare a sbattere contro un muro insormontabile fatto di difficoltà e frustrazione.