Telltale Games crea serie divise in episodi già da diverso tempo, ma è solo con The Walking Dead che sono finiti in cima a tutte le classifiche dei migliori giochi del 2012, meritatamente, verrebbe da aggiungere. Proprio il valore dimostrato da quei cinque episodi (e dal DLC “400 Giorni”) hanno creato un interesse sempre crescente intorno a questa seconda stagione, ma diversi ostacoli erano in agguato, primo tra tutti il carico di lavoro aumentato esponenzialmente presso i loro studios.
Parallelamente a questa seconda stagione di The Walking Dead si è svolta infatti la prima di The Wolf Among Us e sono in arrivo a breve quelle su Borderlands e Game of Thrones. Dopo un primo episodio di transizione, un secondo episodio che è stato un apice difficilmente replicabile ed un terzo episodio inquietante e ad alto contenuto adrenalinico, la seconda stagione di The Walking Dead scivola verso il finale senza lasciare il segno.
Gli ultimi due episodi infatti vedono Clementine e il suo gruppo di nuovo alle prese con il mondo esterno, fuggitivi e sperduti, ma la loro avventura ripresenta tutti i temi già affrontati ed esplorati più e più volte senza riuscire ad aggiungere nulla.
Premessa: trattandosi di un season finale, sono presenti alcuni leggeri spoiler anche e soprattutto legati ai precedenti episodi
Partiamo proprio da lei, Clementine: senza Lee è stata costretta a maturare in fretta e il confronto con la piccola fanciulla della prima stagione è sottolineato da un flashback che pone un paragone diretto con la ragazza a tratti spietata che abbiamo conosciuto negli ultimi mesi.
Forse fin troppo spietata, quasi da rendere irrealistico il personaggio e (soprattutto) il ruolo che ha nel gruppo dei sopravvissuti: se infatti prima la sua innocenza era un faro per tutti, ora che anche lei si è sporcata le mani viene meno quel collante che teneva insieme le persone, lasciandole però il peso di alcune azioni per le quali non c’è nessun motivo plausibile che debbano essere compiute da una ragazzina (come ad esempio la super splatter pulizia di un occhio infetto).
Ma la pulizia dell’occhio non è l’unico momento che ci ha lasciato perplessi: un season finale come si rispetti non può permettersi parentesi come quella in cui Clementine ascolta gli adulti parlare di ricordi sconci, mentre si passano una bottiglia di rhum nascosta per mesi nello zaino.
Qualora anche inquadrassimo questa sequenza in un’ottica più ampia diventa comunque un momento di pace forzato, palesemente sfruttato per cercare una reazione più forte per l’inevitabile (e forzato) finale drammatico.
Passerete dunque l’ultimo episodio cercando di rimettere insieme i pezzi di un gruppo ormai alla deriva, alle prese con donne incinta, nuove entrate che non si integrano e alcuni membri che ne costituiscono le fondamenta in preda alla disperazione.
Pur essendo un compito dal forte significato simbolico, trascorrere così metà di un season finale delude senza mezzi termini: siamo ben lontani dalle tese atmosfere del quinto episodio della prima stagione dove il gruppo era braccato dagli zombie e minacciato da un serial killer. Quel che abbiamo visto in No Going Back è invece un preludio forzato a quella fine già accennata nel titolo stesso, una fine dalla quale non si torna indietro sia per le conseguenze delle azioni compiute, che moralmente.
Tra i temi principali in No Going Back troviamo come dominante quello dell’impossibilità della redenzione. L’apocalisse zombie è solo un acceleratore di un processo inevitabile, ma l’umanità è a prescindere spacciata, come dimostrato nel momento in cui viene spinta ai suoi limiti e privata delle regole istituite dalla società.
Mai come nell’ultimo episodio vale il proverbio latino canis canem edit: caduta la speranza riposta nell’innocenza di Clementine, si rompono gli ultimi argini che ponevano un freno all’orrore. Ognuno pensa a se stesso, anche quando sembra che stia facendo qualcosa per gli altri. Prendiamo per esempio l’impegno che tutti ripongono nel proteggere e crescere il neonato: è palesemente un meccanismo di autodifesa.
Nonostante infatti sia spacciato, tutti si adoperano per aiutarlo, per non perdere quel briciolo di umanità e di speranza che gli rimane. Ma la protezione del bambino diventa come un miraggio nella landa innevata in cui vagano sia gli amici di Clementine che gli zombie, facendo perdere di vista quello che è l’obiettivo principale del gruppo: sopravvivere.
Un’ultima piccola nota la merita la tanto decantata possibilità di modellare la storia sulle proprie scelte: in più di un’occasione abbiamo ripetuto alcune sequenze per salvare disperatamente alcuni personaggi, ma il loro destino sembra segnato dalla perfida mano degli sceneggiatori che si fanno beffa di quella schermata iniziale che ci ricorda questa fantomatica “libertà”.
In conclusione…
Questa seconda stagione di The Walking Dead dimostra quindi che seguire così tanti progetti contemporaneamente non è proficuo (dal punto di vista qualitativo) per i Telltale Games e oltretutto, volendo dare il beneficio del dubbio allo studios, è palese che ormai il brand del fumetto di Kirkman è ormai arrivato alla sua saturazione: una terza stagione è già in programma per il prossimo anno, ma i temi da trattare rischiano di ripetersi, come del resto è già successo quest’anno.
In fondo di giochi con gli zombie siamo ormai invasi, ma la serie di The Walking Dead dei Telltale Games aveva la sua ragion d’essere grazie al fatto che l’apocalisse era solo una scusa per delle riflessioni più ampie e alte. Quando però queste perdono mordente e si ripetono è forse arrivato il momento di andare avanti e lasciare che gli zombie vaghino serenamente in giro per la Terra senza essere più disturbati.
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