Thimbleweed Park
30 Mar 2017

Thimbleweed Park – Recensione

Molto tempo fa, in una galassia lontana, in un mondo in cui non esistevano fanboysmo e console war, una software house rispondente al nome di Lucasfilm Games, pubblicava le avventure di un certo Ron Gilbert (e del suo compagno di bisbocce Gary Winnick) sfornando, a cadenza periodica, quelle che, a quasi 30 anni di distanza vengono considerate, dai gamer più attempati, le pietre miliari del gaming che conta, i punti di riferimento di qualsiasi “avventura” che nel corso degli anni ha provato a scimmiottare, riuscendoci in malo modo, la verve e la fama degli antesignani. Oramai annoiati da anni di sbiaditi e malriusciti tentativi, apprendemmo con immensa felicità, direttamente dall’account twitter di Ron Gilbert, dell’intenzione sua di di Gary Winnick (storico compagno di avventure nella compianta LucasfilmGames) di creare a ben trenta anni di distanza dall’epopea originale di Maniac Mansion, Thimbleweed Park, una avventura grafica “vecchia di zecca” grazie alla quale solleticare l’interesse di tutti i vestusti videogiocatori, oramai digiuni di capolavori del genere e, perché no, anche i novellini che tanto avevano sentito parlare di Maniac Mansion, Monkey Island ed affini.

La campagna Kickstarter, pur modesta nel suo target iniziale (fissato a 375.000$), superò abbondantemente la soglia minima, raggiungendo ben 656.250$ (certo, una inezia se comparati ai ben 4.000.000$ di Torment: Tides of Numenera o ai 145.500.000$ raccolti nel corso degli anni da Chris Roberts per il suo Star Citizen), dando dunque il via alla realizzazione del sogno di ogni bambino degli anni 80: una nuova/vecchia avventura grafica firmata Ron Gilbert. Ed eccoci dunque, dopo due anni e mezzo di sviluppo, a mettere le mani su Thimbleweed Park: ci troviamo dunque davanti ad una mera operazione nostalgia o, effettivamente, ad un riuscitissimo revival? Scopriamolo insieme!

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Giocare sull’effetto della nostalgia ed annullare, al contempo, la distanza critica dall’età aurea delle avventure grafiche è l’ardua sfida che Gilbert & soci si sono trovati ad affrontare durante la realizzazione di Thimbleweed Park. Come far si, dunque, che i giocatori sentissero appieno l’atmosfera del 1987 senza valutare il prodotto finito come una buffa caricatura di se stesso? Semplice: Thimbleweed Park è ambientato, di fatto, nel medesimo anno che diede i natali all’ultrafamoso Maniac Mansion, creando dunque un cortocircuito videoludico capace di azzerare, per via di sagge scelte stilistico-narrative (oltre che per via di una giocabilità dannatamente old-school), i trenta anni intercorsi dall’opera prima di Ron Gilbert & Gary Winnick all’anno domini 2017, momento epifanico dell’ultima fatica del dinamico duo di programmatori. Thimbleweed Park, un paesello di poche decine di anime, viene turbato da un misterioso ed inspiegabile omicidio che porterà due agenti federali ad indagare sullo stesso al fine di far luce su questo e sugli altri misteri che, momento dopo momento, si dipaneranno davanti ai loro occhi.

Si perché, quella che ad una prima occhiata potrebbe sembrare una tranquillissima cittadina americana, risulta essere un calderone pieno di misteri, popolato inoltre da personaggi strani, buffi, sinistri e grotteschi che fanno della loro deviata personalità la ragion prima di un umorismo demenziale e surreale capace di riportarci, trenta anni dopo, di sana pianta ai fasti di Maniac Mansion e di incatenarci, come accadeva nelle vecchie avventure grafiche LucasArts, allo schermo per giorni e giorni, fino ai titoli di coda. Investigando sull’accaduto verremo in contatto con i numerosi comprimari, ciascuno con il suo retro-vissuto e ciascuno, soprattutto, coinvolto in maniera più o meno profonda con il losco passato di Thimbleweed Park che si trasformerà ai nostri occhi, indizio dopo indizio, da un tranquillo centro abitato ad una vera e propria fucina di oscuri misteri tutt’ora in via di risoluzione: alla stessa maniera, i due federali che ci troveremo inizialmente ad impersonare si riveleranno, in corso d’opera, tutt’altro che disinteressati al passato di Thimbleweed Park.

Thimbleweed Park è capace di riportarci, trenta anni dopo, ai fasti di Maniac Mansion

A decretare il successo di Maniac Mansion fu, per la prima volta nella storia dei videogames, la possibilità di impersonare più personaggi e di farli interagire l’uno con l’altro al fine di una corretta prosecuzione nel corpus narrativo della bizzarra avventura di Gilbert & Winnick: parimenti in Thimbleweed Park, oltre alla sopraccitata alternanza tra i due federali, alcuni dei comprimari che incontreremo nel corso delle nostre scorribande nella contea si trasformeranno, alla bisogna, in personaggi giocabili che ci permetteranno, grazie ad un differente punto di vista e ad un difforme aspetto prospettico alla storia, di completare il complesso quadro narrativo intessuto dai ragazzi di Terrible Toybox e porre dunque in essere azioni che ci daranno la possibilità, a mo di ponte narrativo, di superare gli immancabili intoppi e i blocchi in cui incorreremo durante il nostro playthrough.

Proseguendo dunque nell’iter narrativo allestito per noi da Gilbert & friends, ci troveremo a dover “controllare” simultaneamente fino a cinque personaggi, ciascuno con il suo bagaglio di conoscenze e con i propri obiettivi individuali, la cui persecuzione indirizzerà il playthrough verso uno dei molteplici finali a nostra disposizione: si perché, oltre a poter vantare una longevità di tutto rispetto (completare il primo playthrough ci richiederà all’incirca 11-12 ore), Thimbleweed Park ci garantisce una discreta ri-giocabilità per via dei finali a scelta multipla che ci permetteranno di concludere la nostra peregrinazione nelle lande della contea in maniera più o meno positiva e con la “vittoria” di uno o di alcuni dei nostri protagonisti, in un tripudio di citazionismo diretto ai diretti predecessori LucasArts, condito da invettive più o meno palesi contro le avventure grafiche della diretta concorrente Sierra. Niente scimmie a tre teste dunque ma, in compenso, potremo avvalerci della collaborazione di veggenti dedite al voodoo (dove ho già sentito questa cosa???), idraulici vestiti da piccione con una spiccata predisposizione alla ricezione sensoriale, sboccati clown psicopatici e… tanti altri comprimari capaci di riportarci, come se ce ne fosse bisogno, indietro di ben trenta anni… cosa chiedere di più? Forse delle gare di insulti con i maestri di spada: ma non si può avere tutto dalla vita.

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Se dal punto di vista narrativo, da quel che abbiamo visto, il tuffo nel passato è riuscito perfettamente, alla stessa maniera i Terrible Toybox, guidati da Gilbert & Winnick (guarda caso gli inventori di questo genere di avventure grafiche), hanno compiuto a perfezione la traslazione temporale delle dinamiche di gameplay che tanto resero famosi Monkey Island, Maniac Mansion e, non ultimo, Day of The Tentacle.

Se nel 1987 l’invenzione dello SCUMM (Script Creation Utility for Maniac Mansion) diede alla LucasFilm Games uno strumento capace, per via della sua duttilità e facilità di programmazione, di portarla all’apice del successo (basti pensare che lo SCUMM venne abbandonato solo nel 1998 per la realizzazione di Grim Fandango), alla stessa maniera la riproposizione ai giorni nostri di una interfaccia di gioco mutuata completamente dalla versione originaria riesce nell’arduo compito di rendere immediato e fresco, nonostante l’evidente “anzianità” del sistema di controllo, Thimbleweed Park che è sembrato riprendere un discorso lasciato in sospeso tanti anni fa, ma mai veramente dimenticato.

Ci troveremo, dunque, nuovamente a scandagliare ogni singolo pixel dello schermo alla ricerca di punti “attivi” con i quali interagire grazie ad un novero di comandi disposti nella parte in basso a sinistra dello schermo: la pressione del tasto destro sul punto di interesse attiverà l’azione automatica più “logica”, sempre che di logica di gioco si possa parlare nel caso di Thimbleweed Park. In basso a destra, come da tradizione LucasFilm Games, troveremo invece l’inventario: solo combinando tra loro, in maniera più o meno razionale, gli oggetti di gioco ed interagendo con gli ammennicoli risultanti con il mondo di gioco potremo ottenere indizi e prove utili alla risoluzione degli enigmi, la cui difficoltà sarà selezionabile, come da tradizione, all’inizio di ogni playthrough.

Thimbleweed Park è una dichiarazione d’amore verso le avventure grafiche

Ciò che sorprende osservando Thimbleweed Park è la spensieratezza impiegata dagli sviluppatori nella fase di creazione, caratteristica che traspare dalla estrema leggerezza e funzionalità di una grafica di gioco volutamente non al passo con i tempi ma che svolge, al contempo, il ruolo ad essa demandato senza esitazione alcuna. Manca completamente, cosa atipica nel 2017, il menù delle impostazioni grafiche: niente corsa agli armamenti nucleari dunque per acquistare la scheda più costosa del momento, niente pixel shader, luci volumetriche né necessità di filtri anisotropici. Thimbleweed Park è una dichiarazione d’amore verso le avventure grafiche di trent’anni or sono dove la grafica altro non era che un mero orpello utile a raccontare una storia avvincente, unitamente ad una giocabilità da urlo. Parimenti le musiche, che paiono uscire da una scheda Adlib o da una Sound Blaster 8 bit, rappresentano il classico pugno in testa che, invece di far male, è capace sia di dipingere un sorriso sui visi di chi è cresciuto a pane e Guybrush Threepwood che di incuriosire, per via di atipiche dinamiche di narrazione e grazie ad una atmosfera ineguagliabile nella sua semplicità, le nuove generazioni che, per ovvi limiti anagrafici, mai hanno avuto a che fare con maledizioni voodoo o corbellerie affini.

Per quanto la normale trattazione della recensione potrebbe ritenersi conclusa con il precedente paragrafo, Thimbleweed Park, a mio modesto avviso, ad avviso di una persona che, pericolosamente vicina agli -anta, ha passato la sua infanzia ed adolescenza tra un boccale di grog, una perlina di orichalcum e alle prese con le manie di grandezza di tentacoli smaniosi di conquistare il mondo, merita una appendice tutta sua.

Non vi nego che le aspettative per questo gioco, essendo il sottoscritto un backer della primissima ora, fossero elevatissime, così come che il dover redigere la recensione per questo titolo ha messo a dura prova il mio senso critico, oscillante tra adorazione mistica per Ron Gilbert e un dovere di imparzialità manifesto, al fine di potervi dare una opinione quanto più oggettiva possibile su questo prodotto videoludico. Posso comunque assicurarvi che il voto, ampiamente positivo, attribuito a Thimbleweed Park è frutto esclusivamente delle sapienti menti di Gilbert e Winnick che, una volta ancora, sono stati capaci di regalarci un gioco che rimarrà ad imperitura memoria come esponente delle avventure grafiche old-school, non togliendo e non aggiungendo nulla a quanto già visto in passato ma consegnandoci, comunque, un prodotto gradevole in ogni sua forma e penalizzato, forse, da una esclusiva settorialità e da un approccio molto (forse troppo) old-school che ne impedirà una fruizione di massa ad un pubblico “under 35.

Parimenti ai capostipiti del settore, spicca una ottima caratterizzazione dei personaggi principali e dei vari comprimari: ogni protagonista ha una sua personalità ed una sua funzione specifica all’interno del corpus narrativo. Il livello della narrazione si interseca direttamente con quello della personalizzazione dei protagonisti al punto tale che sarebbe possibile capire chi sta parlando anche solo leggendo le molteplici linee di testo che ci troveremo a scorrere durante la nostra avventura in quel di Thimbleweed Park. Ogni personaggio ha i suoi tic espressivi, le sue espressioni peculiari ed un modo di parlare, gestito mediante l’utilizzo di un particolare tipo di inglese e mediante stilemi espressivi direttamente ed univocamente riconducibili al singolo coprotagonista o comprimario. L’umorismo, tara distintiva di tutte le produzioni Lucasfilm Games, torna in tutta la sua demenzialità a costruire intrecci narrativi sensatamente insensati che ci permetteranno, solo dopo una debita interpretazione del significato nascosto (e dopo più di qualche risata a denti stretti o, talvolta, fragorosa) di risolvere gli enigmi che via via incontreremo nel nostro playthrough. Gli enigmi. che per l’appunto hanno rappresentato il “modus giocandi” delle vecchie glorie made by Ron Gilbert, tornano in tutto il loro splendore, pronti a farci maledire il malcapitato di turno nella smania di comprendere e superare uno dei tanti stop in cui incorreremo: duole però notare come gli stessi, nonostante la presenza dei due canonici livelli di difficoltà, siano più “semplici” che in passato, rappresentando dunque una sfida si gradevole ma di facile superamento.

Un’avventura grafica “vecchia di zecca”

La grafica, invece, rappresenta il fiore all’occhiello di questa produzione: un pixellatissimo look retrò che mi ha fatto sorridere non poco, memore dei tempi passati su Melée Island, che ben rappresenta l’approccio di Gilbert & Soci al mondo delle avventure grafiche: come trenta anni fa la grafica, e questo è un parere personale, altro non deve essere che un orpello (più o meno evoluto, sia chiaro) che non vada però a sostituire in tutto la giocabilità o la profondità della trama, elementi che in Thimbleweed Park rasentano lo stato dell’arte. Lo stesso discorso, purtroppo, non può essere fatto per la controparte sonora che, seppur ispirata e di atmosfera, manca di quella corposità cui noi giocatori siamo avvezzi dopo centinaia di playthrough a Loom, Monkey Island, Zack McCracken e Maniac Mansion.

In definitiva, Thimbleweed Park ha soddisfatto quasi totalmente le mie aspettative, regalandomi un tuffo nel passato che non credevo fosse possibile e facendomi capire quanto una idea geniale, partorita da sviluppatori talentuosi, non necessiti, spesso, di una produzione AAA per giungere al grande pubblico e per raggiungere il successo sperato e, soprattutto, meritato.

Conclusioni

Thimbleweed Park si affaccia con la sfrontatezza tipica del professorone saccente nel 2017, in un momento storico in cui le avventure grafiche erano relegate a puro abandonware, settando (nuovamente) gli standard della categoria che, vi stupirete, non sono cambiati affatto da quelli di trenta anni fa (forse solo dimenticati dagli sviluppatori più giovani).

Gilbert e Winnick, inventori ed innovatori del genere stesso, tornano all’opera costruendo un ponte capace di collegare il 1987 con i giorni attuali, proponendoci una avventura anacronisticamente al passo con i tempi, una Twin Peaks demenziale che catturerà per via di una trama sopra le righe e di una giocabilità dannatamente old-school, la nostra attenzione catalizzandola fino al raggiungimento dei titoli di coda.

Tutto ciò, unitamente ad una grafica essenziale, spartana e funzionale, unita ad una colonna sonora molto “vintage” rappresenta la ragione sia del successo di Thimbleweed Park che della sua parziale settorializzazione: l’ultima avventura Terrible Toybox eccelle in ciò che si propone relegandosi così, giocoforza, in un limbo accessibile solo agli appassionati delle vecchie avventure grafiche e a pochi curiosi. Thimbleweed Park vive nel passato e in funzione del passato che vuole rappresentare: i suoi pregi ed i suoi difetti stanno tutti li. Ma, ascoltate un consiglio spassionato: se riuscirete a dimenticare grafica supersonica e fare la mano ad una “giocabilità ragionata”, avrete tra le mani una delle avventure più belle degli ultimi anni.

Grazie Ron Gilbert e Gary Winnick, grazie di cuore.

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