Come fai a non sbagliarne una, cara Naughty Dog? È dall’epoca della prima PlayStation, da quando quella scatoletta grigia piena di adesivi e goffe Memory Card si piantò sotto il mio televisore, sostituendo con un poderoso colpo di coda l’altro amore, il Nintendo 64, che non riesci proprio a sbagliarne una. Sei Re Mida? OK, hai Sony alle spalle che, come un padre facoltoso e premuroso, permette al figlio di studiare nei college più prestigiosi del mondo, affianco alla futura classe dirigente, ai futuri CEO, ai futuri campioni di sport, business, arte. E gli lascia anche il tempo di staccare un attimo la spina, di prendersi tutto il tempo che vuole, di fare le cose “con calma”, che non gli corre dietro nessuno. Ma ci vuole a riscrivere i paradigmi ogni santa volta, e a sentirsi dire, forse con qualche esagerazione, di avere appena sfornato “il Citizen Kane” di un’arte (concedetemelo, ndr) parallela (e spesso fedele compagna) a quella del cinema. Ci vuole anche a mescolare di continuo le carte in tavola, a prendersi rischi grandi come palazzi, a gettarsi il passato alle spalle e cambiare genere, a potersi permettere di non dover raschiare il fondo del barile e a tradire una propria Proprietà Intellettuale, a spolparla fino a farle esalare l’ultimo respiro, e a consegnarla allo scherno delle future generazioni.
Scusate, non è un pezzo su Naughty Dog, mi sono lasciato prendere la mano. E forse un po’ anche loro: forse avrebbe avuto più senso commissionare ai bravissimi BluePoint Games, ormai gli spacciatori di fiducia di ricordi e lacrime compressi dentro un misteriosamente capiente dischetto lucido, non so, una Collection dedicata all’amatissimo Crash Bandicoot? Dico così perché, pur apprezzando il valore filologico di tali operazioni, non mi fanno mai impazzire più di tanto, e nei casi di opere relativamente recenti, le riesco a concepire solo in casi di giochi particolarmente problematici che, per questioni di soldi, per allineamenti astrali poco favorevoli, o forse per colpa di tizi dal colletto bianco genuinamente stron… catori, non sono riusciti a brillare a dovere, a mostrare il loro potenziale (DMC, ti sento scalpitare, ndr). Gli Uncharted sono già di per sé universalmente riconosciuti come capolavori dell’epoca PS3, e nelle loro imperfezioni, alcune delle quali difficilmente rimovibili da una semplice operazione di rimasterizzazione, c’è davvero poco di cui recriminare a Naughty Dog.
La scimmia di Uncharted 4, la conversione “al nemico” di tanti boxari dell’era Xbox 360 che se lo sono perso, e anche questo poco virtuoso trend che tanto sembra piacere ai giocatori, non poteva però non coinvolgere anche Nate e le sue avventure. La Uncharted: The Nathan Drake Collection, in arrivo su PS4 tra qualche settimana, si pone come (obbligatorio?) ripasso anche per chi quelle turbolente emozioni può dire di averle vissute in prima persona, in attesa della Fine (?) di un ladro. Il materiale originale, dal valore inestimabile, merita a prescindere, ma meriterà a prescindere anche una seconda razione dei vostri soldi?
Uncharted: The Nathan Drake Collection
Piattaforma: PS4
Genere: Action/Adventure
Sviluppatore: BluePoint Games/Naughty Dog
Publisher: Sony
Giocatori: 1
Online: Classifiche
Lingua: Completamente in italiano
La raccolta copre la trilogia principale, ignorando purtroppo l’ottimo Golden Abyss, esclusiva PS Vita, colpa forse del suo essere uno dei pochi titoli realmente pensati (spiccatamente touch-oriented com’è) per la peccaminosamente morente portatile di Sony. Ma i tre atti, usciti rispettivamente nel 2007, 2009 e 2011 (sembra ed è un’epoca fa), offrono materiale a sufficienza per seguire un arco narrativo che porta allla crescita, fisica e mentale, di un eroe dei nostri giorni: Nathan Drake. Un po’ spaccone, un po’ infantile, tremendamente coraggioso ed inarrestabile, vulnerabile solo ed esclusivamente allo sguardo ammiccante di una bella donzella, ne seguiremo le gesta sino in capo al mondo, a caccia di segreti tramandati di avventuriero in avventuriero, in un miscuglio di mito e storia amalgamato in un verosimile, coinvolgente ed appassionante racconto narrato con spiegazioni rese squisitamente plausibili grazie anche a tonnellate di finissimi colpi di scena, che avrà inizio con il ritrovamento della tomba di Sir Francis Drake e del suo prezioso diario. La parentela tra i due è, per molti, presunta, ma per quanto lo si stenti a credere, basta un minimo di conoscenza dell’attitudine scavezzacollo di Nate per ritrovare in lui quella stessa spinta verso l’affascinante oscurità dell’ignoto che ha portato il prode ammiraglio, tra il 1577 e il 1580, a circumnavigare il mondo.
Spetterà al suo discendente unire i punti, nel primo e nel terzo capitolo, e tappare le falle di cui sono cosparsi i registri dei viaggi di Drake, tra soste misteriose, incongruenze e mosse ritenute “sospette” da un attento osservatore come Nathan, colpa anche dei numerosi e criptici indizi lasciati all’interno di gioielli, trofei, suppellettili, e persino sull’anello portafortuna del protagonista, arraffato in un museo di Cartagena, Colombia, in tenera età, reclamando il diritto di possederlo in quanto “cimelio di famiglia”. Tramite continui flashback all’inizio del terzo capitolo, “L’inganno di Drake”, comuni all’intera serie, vedremo infatti il giovane Nate che, spaesato e impacciato, ben lontano dallo spaccone al quale siamo abituati, gironzola curioso e affascinato per le teche impolverate del museo che ospita una mostra dedicata al suo illustre antenato, e il giocatore con lui. Ricordo ancora quando, al primo contatto col gioco, passai decine di minuti a vagare in quello stesso museo senza meta, nonostante le dimensioni contenute, a godermi ogni fascio di luce, che era così viva e pulsante, e ogni granello di polvere, talmente bello da quasi suscitare un colpo di tosse, neanche stessi io stesso respirando quell’aria.
La raccolta copre la trilogia principale, ignorando purtroppo l’ottimo Golden Abyss, esclusiva PS Vita
È proprio lì che il nostro eroe farà la conoscenza di Victor “Sully” Sullivan, suo mentore, col quale rimbalzerà da un angolo all’altro del globo alla ricerca di preziosi tesori, in concorrenza spietata e sleale con terroristi, folli collezionisti e persino cultisti senza scrupoli, in un climax pazzesco spalmato su tre episodi e che all’epoca, in più di un caso, scomodò, merito della suprema narrazione, paragoni col cinema, peraltro meritatissimi. Perché ci vuole poco a sacrificare il gameplay sull’altare del racconto per scimmiottare il cinema, spesso però fallendo miseramente, ma Naughty Dog è riuscita nell’impresa di offrire capolavori di giocabilità, coinvolgendo l’utenza con trame da urlo, e condendo il tutto con un voice-acting in grado di far impallidire non poche produzioni Made in Hollywood. Lo scotto da pagare sta però nella libertà mutilata del giocatore, posto davanti a “bivi” (ma legati esclusivamente all’approccio, più silenzioso o esplosivo) collocati all’interno di un labirinto con una sola uscita e dalle pareti alte e insormontabili.
Ci sono personaggi memorabili, dalla sinuosa Chloe alla spietata Katherine Marlowe, un cattivo da manuale, passando per la bella Elena, giornalista e compagna di avventure che, suo malgrado, darà il via al tutto spesando la spedizione che porterà alla scoperta del diario di Drake. A rendere memorabile anche l’apparato narrativo della trilogia sono però gli intrighi, i tradimenti, i complotti, le leggende spiegate con una precisione in grado di convincere il giocatore che nelle profondità di Francia, Borneo, Nepal, o sotto qualche strato di sabbia nel deserto di Rub’ al Khali, ci sia realmente qualche città nascosta, qualche rovina che contenga al suo interno tesori dal valore inestimabile, che in un remoto passato hanno suscitato le ire degli dei, smosso le montagne, e giustificato spese folli e spargimenti di sangue. C’è El Dorado, c’è l’Atlantide del Deserto, Iram dei Pilastri, e c’è persino Shangri-La, con tanto di Marco Polo tirato nell’affascinante calderone di storie e leggende sapientemente illustrate da Naughty Dog, ma come spesso si dice, più che la meta, è il viaggio a rendere impagabile l’esperienza con una serie come Uncharted, sia questo il primo o il decimo contatto con essa.
Al suo posto, immutato rispetto al passato, è rimasto, oltre a quello narrativo, l’impianto ludico. La serie resta infatti un adrenalinico mix tra un third person shooter e un platform 3D fatto di sequenze di shooting e baratri da superare ad un passo dalla morte, di piattaforme pronte a crollare sotto i piedi del giocatore e basi nemiche di varia forma e struttura nelle quali infiltrarsi sfruttando tubi, alberi, cornicioni, cartelli, cumuli di pietre e rovine. La “libertà mutilata” racchiusa nell’estrema linearità del tutto, forse uno dei più pesanti retaggi della old-gen, prevede un alternarsi frenetico di sparatorie energizzate da nemici via via più coriacei ed astuti, che quando non si fermeranno ad aspettare la vostra mossa o quando non ignoreranno platealmente la vostra presenza (in particolare nei momenti “stealth”), schiveranno proiettili e sbucheranno da ogni angolo per crivellarvi di colpi. Di tanto in tanto, ma non aspettatevi di ritrovarvi per sbaglio in un Metal Gear Solid a caso, potrete anche farvi strada con discrezione e silenzio, ma queste sequenze stealth a spizzichi e bocconi verranno sempre più spesso sostituite, loro malgrado, da tempeste di piombo, ben bilanciate dalla continua sete di munizioni e dalle iconiche sfide (uccidi X nemici con Y arma) proposte dal team per sbloccare una delle numerosissime ricompense previste sotto forma di skin, armi infinite, filtri per la grafica di gioco e quant’altro. Le scazzottate a mano libera, più precise grazie all’input lag ridotto ma sempre molto goffe per via di animazioni ancorate al passato, saranno sempre molto minimali e semplici, nonostante le lievi aggiunte fatte di capitolo in capitolo (dai contrattacchi alle prese), ma in compenso le parti sparatutto dure e pure si difendono alla grande, combattendo il processo di invecchiamento con lievi tweake con l’accresciuta fluidità generale, tra i punti di forza di questa remaster. Granate ed esplosioni provocate da bombole di gas saranno ancora più belle da vedere, ma la limitata interazione con l’ambiente, ancora presente come una zavorra, smorza gli effetti pirotecnici (ma non quelli particellari, visibilmente migliorati).
Sta nel ritmo pazzesco la vitalità e la superiorità di tutti e tre gli Uncharted, smussando la formula (acerba ma neanche troppo) del primo episodio fino alla semi-perfezione ritmica e alla completezza del secondo (ancor più del numero 3): mai una tregua, mai una pausa, mai un’incertezza. Sparatorie a base di coperture, carambole di proiettili e bombe, schivate al fulmicotone, strategie per annichilire i nemici muniti di scudo anti-somossa, che si danno il cambio, come in una di quelle staffette leggendarie delle Olimpiadi, con custscene dirette magistralmente, inseguimenti su tetti, stradine e foreste, con salti funambolici tra rapide, pilastri di roccia, alberi, strutture fatiscenti, passando da un pezzo di ferro arrugginito all’altro senza pensare all’estrema precarietà degli stessi o allo strapiombo lì sotto. E quando si rallenta, è solo per prendere la ricorsa, per mettere in risalto qualche incredibile scoperta, o un momento chiave particolarmente rivelatore sulle gesta di Drake, di Marco Polo o di Lawrence d’Arabia.
La serie resta un adrenalinico mix tra un third person shooter e un platform 3D fatto di sequenze sparatutto e baratri da superare ad un passo dalla morte
Cos’è invece ad essere cambiato? L’impresa di BluePoint Games non deve essere stata semplice. Un po’ perché ha dovuto mettere mano ad una delle trilogie più amate del gaming, un po’ perché il materiale originale era già di per sé pazzesco, e dargli quella spinta necessaria a meritarsi un posto nell’attuale generazione, almeno dal punto di vista tecnico (ad honorem c’era già a prescindere) sarebbe stato sì meno complesso rispetto ad un titolo PlayStation 2, ma avrebbe chiaramente richiesto uno “stacco” più palese per motivare un nuovo acquisto. “Nuovo”, perché è scontato dirlo, ma indipendentemente da quel che scriverò a breve, chiunque non abbia mai indossato nei panni di Nathan Drake deve assolutamente rimediare il prima possibile, e questa Uncharted: The Nathan Drake Collection cade proprio a fagiolo. Al contempo, però, gran parte degli interessati ad essa si chiederà “quanto ha senso recuperarla di nuovo?”. A pesare sulla decisione c’è l’assenza pesantissima del multiplayer, sostituito dalle ormai classiche leaderboard, con continui confronti di statistiche con i propri amici, e dalla nuova modalità “Speedrun”, pensata proprio per gli estremisti della performance che potranno confrontare i tempi di completamento dei giochi.
Si tratta pur sempre di tre gioconi al prezzo di uno (nuovo), e di un monte ore che solo contando le trame principali, senza star lì a perlustrare ogni singolo anfratto, supera agilmente le 25 ore, quindi a malincuore può anche essere accettata la “scusa” ufficiale sia del team che di Naughty Dog, ovvero quella di non voler frammentare le community tra le versioni PS3 ancora giocatissime e quella che sarebbe nata su PS4. Premio di consolazione? La beta multiplayer di Uncharted 4 inclusa nel pacchetto, prevista per dicembre. Ma tranquilli, c’è tanto altro, seppur limitato ad aspetti puramente e brutalmente tecnici.
La gran cura posta in questa remaster si palesa già nei menu: fluidità, caricamenti ridotti all’osso, e tante opzioni con le quali personalizzare la propria esperienza, dalla customizzazione esagerata del sonoro in base al proprio impianto audio, fino alla scelta di attivare e modulare il motion blur, anche nel primo Uncharted (dove era precedentemente assente). Basta qualche minuto di gioco però per trovarsi in una nuova dimensione, familiare, eppure così fresca e sfavillante: se “Il Covo dei Ladri” e “L’inganno di Drake” erano già impressionanti all’epoca, è il primo episodio a porre in risalto la qualità del lavoro di BluePoint Games, ma anche i limiti dello stesso. Tra le novità della rimessa a nuovo, comuni a tutti e tre i capitoli, spiccano la risoluzione a 1080p, l’illuminazione più fredda che dona maggiore spessore alle scene e una tocco di fedeltà e realismo al tutto, gran parte delle texture ripulite da cima a fondo, soprattutto dei personaggi, ora più vivi e carichi di dettagli che mai. Anche le cutscene sputeranno fuori peli della barba di Nate, pieghe degli abiti, sporcizie varie, ma sono i 60 fps stabili e rocciosi ad offrire la più piacevole novità, anche per l’influenza che hanno avuto sul gameplay stesso, tra il già citato input lag ridotto, la maggiore precisione in termini di esecuzione delle combo negli (spesso opinabili) scontri corpo a corpo, ma anche nella mira stessa, dove, soprattutto nel primo capitolo, bastava uno specchio d’acqua e qualche nemico di troppo ad impensierire il pesante engine e a rallentare la visuale a suon di fastidiosissimo e perenne tearing, ora completamente sparito.
Sono i 60 fps stabili e rocciosi ad offrire la più piacevole novità, anche per l’influenza che ha avuto sullo stesso gameplay
Non mancano i rarissimi glitch e fenomeni di pop-up (si spera prontamente risolti dall’attesa e ormai immancabile patch Day One), le animazioni a tratti legnose (soprattutto durante le fasi di arrampicata) e le sgradevoli “pattinate” sono ancora al loro posto, mentre ancor più evidenti e stranianti sono i problemi con le collisioni, inguardabili da un punto di vista, fortunatamente, solo estetico. L’esperienza con la collection, nonostante tutto, scorre via che è un piacere e senza intoppi di sorta, portando il giocatore a perdersi tra un dettaglio altrimenti impercettibile in passato, un effetto particellare in grado di lasciare a bocca aperta o un paesaggio restituito alla sua bellezza dalla migliorata illuminazione o dai filtri anti-aliasing che compiono alla grande il loro lavoro. Nel confronto diretto, lo stacco con le versioni originali non l’ho trovato così imponente, ma salvo rari momenti in cui mi è quasi sembrato che i personaggi fossero incollati brutalmente sullo schermo, mi è parso davvero difficile credere di trovarmi davanti a produzioni vecchie anche di 8 anni. Gran parte dell’ottimo lavoro è stato chiaramente fatto a monte, ma c’è davvero poco di cui lamentarsi con BluePoint Games.
L’ormai tradizionale ciliegina sulla torta, in un pacchetto che oltre a due nuovi livelli di difficoltà (uno ancor più semplice, e l’altro ancor più proibitivo) e alla succitata modalità Speedrun, non solo non presenta novità contenutistiche ma addirittura preferisce dedicarsi alle sottrazioni (per fortuna sono spariti anche i fastidiosi momenti in cui era necessario usare il sensore di movimento del Dual Shock 3), è il Photo Mode, ricco di filtri, cornici e settaggi con i quali immortalare Nathan Drake durante un salto particolarmente funambolico, o sui tetti di Londra, magari lasciandosi “photobomb-are” dall’iconico Tower Bridge in un contesto notturno e carico d’atmosfera.
Nota a margine ed estremamente personale: all’epoca degli originali ero solito giocare praticamente ogni titolo in lingua italiana, e non ho mai avuto modo di saggiare la bontà del doppiaggio originale. L’assenza “forzata” di quello nella nostra lingua nella copia review fornita da Sony (ma o via patch, o “nativamente”, sarà presente nel gioco finito, tranquilli) è riuscita a farmi immedesimare ancor di più nelle avventure di Nate e co, ma anche di notare (per la prima volta, in questo caso) l’estrema e quasi urticante pudicizia della localizzazione italiana, sempre pronta ad edulcorare non poche espressioni di quei due sboccacciati di Nathan e Sully. Tra il karma che ora “piace” e che non è più una “bitch”, e una “prostituta che suda in chiesa” di troppo, presa in prestito per un’ardita metafora, che si è trasformata addirittura in una ninfomane (?), non posso che limitarmi a segnalare amaramente la cosa: non va a snaturare più di tanto la personalità dei due prodi eroi, ma trattandosi di un’operazione “filologica” (i sottotitoli/doppiaggio sono gli originali), è impossibile non storcere il naso.
In conclusione…
Del valore dei tre Uncharted c’è davvero poco da dire: capolavori dell’era PS3 che meritano almeno una run nella vita, ma anche una seconda e una terza, vista la bontà innata di narrazione e gameplay. Parte delle incertezze del passato, sia tecniche che ludiche, restano, dall’IA che vanifica qualsiasi velleità stealth, alla totale mancanza di libertà, che rimane uno dei dazi più pesanti che la serie e questa collection pagano ai fantasmi della precedente generazione. Alcune animazioni godono sempre di quella stessa legnosità, dell’assenza quasi ingiustificata del multiplayer va tenuto conto, e di novità concrete non ce ne sono, ma il lavoro svolto da BluePoint Games, ormai una garanzia in fatto di remaster (che poi per carità, è come vantarsi di suonare in un’ottima cover band, ma quella è un’altra storia, ndr) è certosino e va premiato quasi senza riserve, essendo intervenuta dove poteva senza stravolgere il materiale originale. Tanti piccoli e grandi fix alle meccaniche, texture ed illuminazione rimesse a nuovo, e una risoluzione sparata al massimo che restituisce un impatto visivo a tratti pazzesco, se si tiene conto dell’anzianità del materiale in questione. È però la fluidità, quei 60 fps fissi (salvo le dovute ma a tratti impercettibili eccezioni) che hanno rimesso al mondo il primo capitolo, stravolgendone in positivo la giocabilità, a permettere alla remaster in questione di proporsi come una collection davvero da incorniciare.
Merita di nuovo i vostri soldi? Dipende da quanto sono rimaste scolpite nella vostra memoria le sequenze più emozionanti, i colpi di genio narrativi, i dialoghi, le sorprese incontrate tra una peregrinazione e l’altra, ma anche dal vostro legame con la saga di Naughty Dog. Se i ricordi sono vaghi, sepolti da centinaia di sessioni con altrettanti titoli, o se non riuscite a dare un freno al treno (sì, quello stesso treno di Uncharted 2) dei ricordi, tenendo anche conto dell’arrivo di Uncharted 4, è più che sacrosanto e lecito godersi una nuova scappatella con una delle trilogie più belle del gaming. E l’Uncharted: The Nathan Drake Collection è l’occasione perfetta per assaporare alcune delle pagine più importanti della storia del videogioco moderno.
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