09 Ago 2016

We Happy Few – Anteprima

Provate a chiedere a qualcuno di descrivervi la felicità: avrete una, dieci, mille differenti versioni, concezioni, teorie. A Wellington Welles, il teatro delle astruse vicende di We Happy Few, la felicità ha la forma di una piccola pillolina, da ingerire con regolarità: si chiama “Joy”, ed è l’unico modo per potersi integrare perfettamente in questa società distopica, a tratti orwelliana, l’unico modo per tenere a distanza i terribili ricordi di qualcosa che è successo trent’anni prima, durante la guerra. Da chi o da cosa, è ancora un gran bel mistero. L’anno è il 1964, l’atmosfera è quella delle cittadine inglesi di campagna, quelle che pullulano di cittadini che mormorano, ma qui sono aggressivi, qui è la spada (o la mazza, o la roccia, tutto quel che gli – e vi – capiterà sotto mano) a tagliare molto più della lingua.

Dicevamo, un mistero: è infatti ancora presto per svelare i piani di Compulsion Games, giovane ma talentuoso team fattosi notare qualche anno fa con Contrast, e pronto a tornare sulle scene con un’esperienza fuori dagli schemi, dall’elevato potenziale, ma purtroppo ancora molto acerba. Sia chiaro: stiamo parlando di un’alpha che, seppur grezza e minata da alcuni problemi, è già giocabile ed apprezzabile, e rappresenta la base di un progetto molto più ampio, visionario, e sicuramente interessante. Si parla di tre campagne legate ad altrettanti personaggi, ognuno con un proprio stile di gioco, ma per ora ci si deve accontentare, sia su PC che su Xbox One (dove We Happy Few è disponibile tramite Steam Early Access o Xbox One Preview Program) di una sorta di prologo con solo qualche lieve accenno di narrazione, pensato per mostrarci le meccaniche di base di questo intrigante mix tra survival e roguelike, la natura procedurale del mondo di gioco, e darci un assaggio della folle atmosfera che troveremo nel prodotto finito.

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Sì, certo, folle… come le adolescenti che passano le giornate a disegnare X protagonista di X film di Tim Burton sul loro diario segreto.” No, davvero, le vostre orecchie non faranno altro che ascoltare dialoghi privi di qualsiasi nesso logico, il proverbiale “accennare coppe e tirare bastoni”, tra detti accennati a metà senza alcun reale bisogno o contesto, accuse infondate, maldestri scambi di persona e parolacce assortite (tutto in inglese, e forse ripetuto con troppa frequenza, urge qualche registrazione extra, ndr). Per non parlare dei comportamenti dei vostri “concittadini” (ma il povero Arthur Hastings, il protagonista della build, verrà chiamato più volte “turista”), apice dell’asocialità, sempre pronti a puntarvi il dito contro, o a imbottirsi di pasticchine e a canticchiare, illusi che la vita sia bella, per paura che i “bobbies”, i poliziotti con le loro inquietanti maschere (le stesse indossate dai cittadini più ricchi), li pestino a sangue.

Anche il loro aspetto non scherza: alcuni saranno infetti da malattie devastanti, che se trasmesse vi porteranno ad una lenta e dolorosa morte proprio quando meno ve lo aspettate (sempre meglio avere una cura a portata di mano), altri corrosi dai ricordi, dalla miseria, dalla desolazione che traspare da ogni casa semi-distrutta di Wellington Welles, dai cassetti semi-vuoti, dai pezzi di ferro e dal cibo marcio che diventano le uniche risorse necessarie alla sopravvivenza. Anche del giocatore, ovviamente: il suo scopo è fuggire da questo delirio, e sfruttare ogni minimo strumento a sua disposizione per avanzare, affannosamente, gatton gattoni, verso, forse, un futuro più luminoso, e privo di pillole.

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Già, perché sarete costretti, di tanto in tanto, a prenderne qualcuna: un po’ per non passare per “Downer”, e ritrovarvi poliziotti e cittadini alle calcagna, un po’ perché alcune missioni richiederanno una condizione “alterata” per essere attivate (quasi tutte di notte, tra quelle provate): così tra una camminata allegra, un filtro rosa dell’immagine e arcobaleni in ogni dove, avrete modo di vedere cose che la sanità mentale (o ciò che ne rimane) terrà ben nascoste, come un fantasma che vi indicherà il punto in cui scavare per trovare un oggetto cruciale per l’avanzamento verso una nuova isola. A proposito, il team ha strutturato We Happy Few, in isole, in modo da sperimentare con la generazione procedurale col minor rischio possibile: ad ogni morte (sempre che non decidiate di disattivare la permadeath), o ad ogni nuova partita, il mondo di gioco cambierà, e con esso le missioni in esso incluse.

In tal modo, pur avendo uno stesso obiettivo, ogni playthrough cambierà, richiedendo un percorso diverso, un approccio diverso: in una partita abbiamo dovuto recuperare del miele da un folle per poter ottenere l’accesso alla nuova isoletta (sono porzioni di città separate da baratri e corsi d’acqua), badando bene di craftare una giacca più resistente alle punture delle api (e in generale agli attacchi), preziosa in quel frangente, ma pericolosa per girare in città (in quanto destava troppo l’attenzione e attirava più squilibrati del previsto).

In un’altra, è bastato recuperare le tessera d’accesso di una guardia: abbiamo provato prima con le maniere forti, provando ad ucciderla (senza successo, colpa anche di un combat system ancora molto acerbo e poco soddisfacente – è possibile tentare il takedown silenzioso, colpire, pararsi, provare il parry oppure spingere via e darsi alla fuga – ). Alla fine è bastato tenerla impegnata con dell’alcol (è possibile donare oggetti, come mazzi di fiori, medicine e pasticche, per tenersi buoni i cittadini) per poterla recuperare da una cassa nei paraggi.

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Ma We Happy Few non è soltanto esplorazione e missioni (nelle quali non sempre è filato tutto liscio, tra assenza di indicatori e défaillance dei trigger): anche la sopravvivenza è cruciale, con tanti elementi di cui tener conto, ed è forse uno degli elementi che, per ora, ci ha convinto maggiormente. Se infatti, come detto, il combat system non brilla, e almeno per il momento c’è poca varietà nei vari playthrough (in termini di tipologia di missione, ma anche nell’aspetto della città, dove pur cambiando l’ordine degli addendi, l’impatto visivo non cambia), le meccaniche survival risultano già da ora ben equilibrate, punitive al punto giusto, ma mai ingiuste: per tenere a bada la sete ci sono fontanelle ben segnalate sulla mappa, dove è possibile ricaricare le borracce che troveremo man mano.

Per la fame, c’è un po’ di tutto, dal cibo (anche quello marcio, ma occhio all’avvelenamento: ridurrà velocità e salute, e darà fastidi alla vista) alle piante disseminate un po’ ovunque, alcune delle quali necessarie alla creazione di cure con le quali ripristinare la salute. Per il sonno, che sarà fatale (ancor più degli altri valori di cui tener conto), potrete dormire nei letti disseminati un po’ ovunque, ma preparatevi all’arrivo dei proprietari sul più bello, oppure nelle safe house (una per ogni “isola”), dove potrete inoltre gestire al meglio il vostro inventario.

Raramente abbiamo percepito in We Happy Few quel senso di frustrazione tipico dei giochi appartenenti a questo genere sempre più in voga, trovando invece molto soddisfacente la necessità di dover badare alle condizioni del protagonista. Interessante anche il crafting, per ora abbastanza scarno, tra oggetti per disinnescare le trappole, grimaldelli, indumenti, medkit, armi e altro ancora. Molto meno soddisfacente è invece l’IA degli NPC/potenziali nemici, che o ci attaccheranno senza motivo, o ci ignoreranno totalmente, vanificando tutta la componente stealth, che appare ancora grezza, se non embrionale o inesistente.

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Ci aspettavamo forse di più da questo primo impatto con We Happy Few: se infatti l’idea di base appare molto intrigante, l’atmosfera curata e morbosa al punto giusto, e le meccaniche survival risultano già da ora profonde al punto giusto e coerenti con l’esperienza di gioco, ci sono ancora tanti elementi che stonano, dal combat system poco divertente, all’approccio stealth, vanificato da una IA da rivedere. Si percepisce anche una certa ripetitività che non viene (ancora) alleviata dalla generazione procedurale del mondo circostante e di alcune delle missioni, interessanti ma pur sempre molto classiche.

Stiamo però parlando di un’alpha: We Happy Few uscirà probabilmente entro l’anno, e Compulsion Games ha tutto il tempo per rivedere ciò che non va (e magari includere una minimappa, oltre che un save system meno macchinoso). Promossa invece la visione artistica del giovane team canadese, che alterna zone più grigie e decadenti, a più colorate e sessantiane, donando un tocco molto personale al tutto, oltre che offrendo un impatto visivo molto piacevole e stracolmo di dettagli, a partire dagli interni delle abitazioni che potremo perlustrare e saccheggiare.


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