“Non fare lo scorfano brontolone.” Così diceva Dory a Marlin in “Alla ricerca di Nemo”, invitandolo a cercare il lato positivo nelle cose e prendere il buono che la vita è capace di offrire. In un certo senso, We Happy Few fa la stessa cosa ma in chiave molto più violenta, cupa e folle di quanto un film Disney potrebbe arrivare a proporre. Musone: è questa la parola maledetta con cui vengono etichettati tutti coloro che non seguono le regole, dubitando della felicità di cera di una realtà artefatta e malata come quella di Wellington Wells. Il secondo videogioco dello studio di sviluppo canadese Compulsion Games (autore del particolare Contrast) sulla carta aveva tutto ciò che serviva per attirare l’attenzione: dal titolo che non solo cita Shakespeare e il monologo di Enrico V ma fa anche riferimento a una particolare condizione psicologica di dipendenza dai farmaci, fino a ispirazioni letterarie e cinematografiche come 1984 di Orwelle Arancia Meccanica di Kubrick, passando per un gameplay che pur ricordando da vicino BioShock trova le sue ispirazioni piuttosto in titoli come Don’t Starve, non c’era motivo per dubitare troppo di un indie che puntava a essere un tripla A, pronto a sgomitare per guadagnare un meritato riconoscimento. O almeno sembrava.
Poi c’è stato il periodo in Early Access, che non ha raccolto pareri troppo favorevoli e ha visto il gioco rimanervi per ben due anni prima di trovare finalmente la via della pubblicazione ufficiale. Dopo essermi immersa nella sua insania, scavando fino in fondo alla ricerca di tutte quelle promesse che lasciava intendere, posso affermare che senza alcun dubbio We Happy Few è un ottimo esempio di narrazione distopica, tuttavia, al contempo, è spesso disorientante, deprimente e soprattutto perso nelle sue stesse ambizioni. Un titolo che non riesce a tenere la presa sulle proprie idee. Vediamo perché.
Il colorato e inquietante We Happy Few prende luogo, come abbiamo detto, in una fittizia cittadina inglese chiamata Wellington Wells nel 1964. La Seconda Guerra Mondiale si è conclusa con la vittoria dei tedeschi, i quali hanno sottomesso l’Inghilterra (e forse anche altre nazioni) a seguito della decisione da parte degli USA di restare neutrale al conflitto. Durante l’occupazione, il governo di Wellington Wells ha compiuto una scelta talmente orribile da spingere i cittadini a dimenticarsi dell’accaduto facendo uso di un potente allucinogeno chiamato Gioia, che altera la loro psiche mantenendoli in uno stato di costante euforia grazie alla quale il mondo attorno a loro è – letteralmente – rose, fiori e arcobaleni. Non esistono preoccupazioni, la tristezza è un sentimento sepolto come quel passato del quale nessuno vuole parlare. Ben presto l’uso di queste pillole si trasforma non solo in completa dipendenza ma in una legge inviolabile: vengono installate cabine per la distribuzione di Gioia un po’ ovunque, poliziotti pattugliano le strade giorno e notte per assicurarsi che non ci siano musoni a disturbare la quiete pubblica, aiutati da alcune sentinelle meccaniche in stile steampunk che sorvegliano Wellington Wells dall’alto, schermi che scansionano chiunque passi loro vicino, barriere di energia pronte ad attivarsi al primo segno di sovversivo… senza contare i cittadini stessi, pronti a diventare delle vere e proprie belve assetate del sangue nei confronti di chiunque tenti di turbare la loro fittizia quiete. Come il personaggio principale che andremo a controllare, che si libererà dal proprio incubo soltanto per ritrovarsi in uno ben peggiore.
Arthur Hastings era un semplice impiegato dedito alla censura delle notizie, prima di rendersi conto della sua condizione grazie a un vecchio articolo di giornale che riporta a galla brutti ricordi. Incapace di fingere quando realizza che la pignatta con cui i suoi colleghi lo invitano a giocare altro non è che il cadavere di un ratto sul quale poi banchettano, l’uomo viene subito riconosciuto come musone e braccato dai poliziotti. Da questo momento ha inizio il suo viaggio per riconquistare le memorie perdute e capire cosa davvero sia successo. Ma la sua è una storia che condivide con altri due personaggi, di cui prenderemo il controllo una volta finiti i tre atti che costituiscono la narrazione dedicata ad Arthur. Sono Sally Boyle, amica d’infanzia di Arthur verso cui lui nutre forte risentimento ed esperta di chimica che sta segretamente (e illegalmente) crescendo un bambino, il cui stile di gioco si basa principalmente sulla furtività, e il vecchio vicino di casa Ollie Starkey, veterano di guerra molto più a suo agio con la forza bruta che parla con lo spettro della sua defunta figlia. Le loro vite si intrecciano ma ciascuno cerca la redenzione per un rimpianto personale che lo consuma nel profondo, mentre prova a sopravvivere in un mondo dove proprio il rimorso rappresenta il peccato mortale per eccellenza.
We Happy Few si ispira a molti classici della narrativa distopica britannica ma al tempo stesso mette in scena una sorta di intimità bucolica particolarmente disturbante. I personaggi infatti conoscono chiunque per nome in città – ma anche fuori, nelle terre più selvagge lasciate al degrado – perché il gioco genera nomi per ogni singolo cittadino, nemico e cadavere. Nomi peraltro che grondano anglosassone da ogni lettera. L’oligarchia repressiva di Wellington Wells è da temere non tanto per i vertici al potere che la controllano, sopra tutti Uncle Jack, quanto per i cittadini stessi, il cui comune obiettivo di dimenticare li porta a ricordarvi, con un enorme sorriso e particolare insistenza, di “essere felici” mentre vi bastonano a morte una volta che li avrete insospettiti a sufficienza. Se non è disturbante questo…
L’affascinante contesto di We Happy Few è un’occasione sprecata
La narrazione e l’ambientazione sono gli aspetti che più funzionano di We Happy Few, nonché pressoché gli unici. Proprio come i ghigni forzati sui volti degli abitanti, infatti, la gioia di questo titolo è piuttosto fittizia. L’affascinante contesto per cui una società si abbandona alla droga con il solo scopo di cancellare un passato di vergogna e sofferenza viene sprecato in ambienti di gioco ripetitivi, la cui scala degna di un titolo tripla A è dovuta in buona parte a una generazione procedurale che Compulsion Games sfrutta per aumentarne la portata, e per quanto funzioni, si limita appunto solo a fare il proprio dovere senza dare alcun apporto in più all’esperienza; in missioni secondarie dal ritmo lento e ripetitive, tutte riconducibili alle ben poco apprezzate “fetch quest” dove il giocatore sostanzialmente agisce da mulo per il committente, prendendo un oggetto e portandolo dal punto A al punto B spesso pur trovandosi a un paio di metri di distanza (succede davvero); infine in una varietà di meccaniche confuse che non riescono davvero ad armonizzarsi l’una con l’altra, lasciando la sensazione che gli sviluppatori abbiano voluto inserire più elementi possibili ma non siano infine riusciti a trovare il collante in grado di tenerli, se non perfettamente, quantomeno logicamente legati. Laddove le storie di Arthur, Sally e Ollie riescono a regalare momenti commoventi, il gameplay di We Happy Few sembra quasi voler ostacolare la nostra intenzione di giungere fino in fondo a ciascun racconto. Di fatto, i momenti migliori del gioco sono proprio quei pochi scriptati, poiché danno senso al tutto rendendolo molto elaborato e simile a un open world di Bethesda – il che potrebbe essere un complimento, se non ne riprendesse gli aspetti più negativi. Oltre a quelli già menzionati si aggiungono anche il combattimento poco interessante, il cui livello di divertimento è altalenante, e prestazioni tecniche discutibili in cui si susseguono bug e glitch.
In Early Access – dove abbiamo detto essere rimasto per circa due anni – We Happy Few si presentava come un gioco di sopravvivenza. Per lo più il concetto è rimasto invariato, sebbene la struttura sia andata modificandosi. Nel ruolo di tutti e tre i personaggi dovremo tenere sotto controllo la fame, la sete, il sonno e altre condizioni più personali, come Ollie che deve stare attento ai livelli di zucchero nel sangue, il cui degrado comporta penalità alle nostre condizioni sia di salute sia di resistenza, ma anche alle prestazioni in combattimento. All’inizio non è facile entrare nell’ottica, data la relativa scarsità di risorse soprattutto per quanto riguarda la nostra salute (balsami curativi, antisettici, bendaggi puliti, eccetera), ma ben presto risulta frustrante: sebbene il necessario poi si assesti diventando più facilmente reperibile, dover costantemente occuparsi di questi aspetti quando si vorrebbe progredire con la storia potrebbe giocare un po’ troppo con i nervi dei meno pazienti. Volendo considerarlo un problema minore, si presenta tuttavia quello delle risorse: sono tantissimi gli oggetti da raccogliere nel corso dell’avventura ma un numero davvero esiguo si rivela effettivamente utile. Petali di rosa per i balsami o spille da piedipiatti per i grimaldelli sono gli articoli che vanno per la maggiore, mentre le tossine che possono stordire o in alternativa uccidere i nemici non ci danno mai una valida ragione per preferire l’una all’altra. Gli stessi menu di creazione dei personaggi variano in base alle rispettive abilità, tuttavia gli elementi principali che condividono fra loro sono anche quelli che andremo a usare maggiormente, relegando a meri accessori o vizi quelli più complessi, dei quali non c’è mai reale bisogno. La sensazione che se ne ricava è l’ennesimo spreco di un potenziale a portata di mano: un sistema di crafting molto espanso ma, alla fine, ridotto a pochi oggetti essenziali. Ancora una volta, molte idee sulla carta poco contestualizzate.
A rompere questo schema prettamente lineare e noioso sembra intervengano le rigide regole di Wellington Wells: all’esterno delle mura saremo costretti a indossare abiti strappati per conformarci agli emarginati, resistendo (oppure no) alla tentazione di entrare in ciò che resta delle loro dimore per derubarli. Dentro, invece, è tutta un’altra storia: gli abitanti sono pronti ad azzannarci alla gola al minimo errore e non è raro le prime volte trovarsi all’angolo con tutti o quasi alle calcagna. Per confonderci nella folla basta prendere una pillola di Gioia, la quale però riempie solo per un terzo l’indicatore che a sua volta si svuota molto in fretta. Non sarebbe un grosso problema, se questo non portasse a una crisi d’astinenza della durata di circa un minuto o poco più durante la quale saremo perfettamente visibili per i musoni che siamo e dunque soggetti a una caccia spietata; se a questo aggiungiamo che nella città non sono consentiti atti insoliti come correre, la soluzione migliore rimane nascondersi alla vista, aspettare che le conseguenze della mancata assunzione di Gioia svaniscano e poi riprendere a camminare come se nulla fosse. Questo perché, semplicemente, gli abitanti non si accorgeranno pressoché mai della nostra finzione se non daremo loro motivo di dubitare di noi: le uniche a non poter essere ingannate sono le macchine ma per loro basta un po’ di accortezza e il gioco è fatto. Certo, Gioia o meno vige comunque la regola di rispettare gli spazi altrui, perciò intrufolarsi nelle abitazioni durante il giorno non è mai una buona idea, mentre la notte siamo liberi di fare i comodi nostri con solo i poliziotti a pattugliare le strade – una situazione semplice da aggirare, specie dopo aver sbloccato qualche abilità. Il che però dimostra come il sistema sia difettoso.
We Happy Few manca di una direzione precisa
La personalizzazione dei protagonisti infatti vanifica totalmente alcune delle regole che rendono difficile la vita in Wellington Wells, come ad esempio poter compiere qualsiasi atto ritenuto bizzarro (correre, accovacciarsi, eccetera) senza più insospettire gli abitanti, oppure ignorare i coprifuoco notturni. Sembrano quasi delle concessioni, come se We Happy Few fosse consapevole dell’eccessiva rigidità di alcune meccaniche ma anziché migliorarle si limitasse ad annullarle direttamente. Quando queste regole non sono impietosamente aggirate, spesso si limitano a non funzionare: altro esempio durante il coprifuoco, se le guardie vi individuano diventano ostili e prendono a darvi la caccia, ma basta soltanto allontanarsi un po’ e sedersi a leggere il giornale con fare innocente su una panchina (ricordiamo che per le strade non gira nessuno a parte voi) ed ecco che non sono più in grado di individuarvi. Nel caso doveste invece incappare in un combattimento, tenendo a mente che soprattutto nelle fasi iniziali i poliziotti sono molto forti, il modo in cui si svolge è tedioso e si limita a un continuo esaurire la nostra resistenza menando fendenti con l’arma che stiamo impugnando, per poi ritrarci in difesa fino a quando la barra non è di nuovo piena. Va detto tuttavia che ritrovarsi in uno scontro, dopo aver capito come funziona il tutto, è molto difficile perché i nemici molte volte vi passano accanto senza nemmeno insospettirsi, facendo dubitare dell’efficacia della loro percezione. Inoltre i percorsi di pattugliamento sono semplici da individuare e non deviano mai, privando uno stealth già di per sé molto lineare di qualsivoglia soddisfazione. Ancora una volta, We Happy Few si dimostra confuso nei propri intenti, incapace di una direzione ben precisa.
We Happy Few è un titolo che sulla carta aveva tantissime ottime idee. All’atto pratico sono invece andate tutte o quasi sprecate, vanificando un contesto davvero interessante e delle storie capaci di coinvolgere il giocatore con la spasmodica ricerca di redenzione che accomuna i protagonisti. Troppe volte si è trovato sull’orlo del precipizio a causa dei suoi passi falsi che vanno a mettere in scena un gameplay costellato da attività secondarie noiose, lunghe traversate in mezzo a paesaggi bucolici e spogli, e un generale senso di inconcludenza quando si tratta di trovare il giusto equilibrio tra sfida e tensione. We Happy Few manca di una direzione precisa che purtroppo vanifica gli ottimi sforzi compiuti dagli sviluppatori in termini di scenario. |