Yakuza: Like a Dragon, o Yakuza 7 in Giappone, si trova a dover raggiungere un obiettivo non da poco: tenere alto l’onore della serie pur presentando un protagonista e un sistema di gioco differenti a quelli che negli anni ci hanno accompagnato. Non più Kazuma Kiryu e una Kamurocho messa sottosopra dall’azione frenetica cui siamo stati abituati (sebbene una capatina nel famoso quartiere la si faccia comunque), bensì Ichiban Kasuga e Yokohama che rispondono alle leggi più compassate ma non per questo meno violente del gioco di ruolo – stiamo comunque parlando di uno Yakuza, assurdità e brutale efficienza non possono mancare.
Due mondi inevitabilmente diversi non solo per i suoi protagonisti ma anche per il loro vissuto: Kazuma è un uomo di quella che potremmo definire “vecchia yakuza”, quando i valori erano altri e l’onore contava spesso molto più del potere, mentre Ichiban si trova costretto a convivere con una rivoluzione interna al sistema pur non essendo molto più giovane del Drago di Dojima. Laddove, nelle avventure precedenti e salvo qualche eccezione, persino gli antagonisti erano uomini tutti d’un pezzo, questo nuovo capitolo mette in mezzo la politica e tutte le ombre, i sotterfugi, che nasconde, dando vita a una storia ugualmente coinvolgente ed emozionante ma anche più subdola, meno ammantata dell’epica che i precedenti giochi trasmettevano a dispetto di tutto – e non vedete quest’osservazione come una critica, anzi, è semplicemente un dato di fatto.
Un cambio di direzione necessario alla serie sia per discostarsi dal suo storico protagonista ed evitare di ristagnare nel ricordo, sia perché i tempi stessi sono cambiati e la tradizione, nel 2019 (in gioco), lascia spazio all’evidenza di come il potere abbia diverse sfumature e ben poche si sposano con il codice di quegli yakuza che abbiamo conosciuto. Insomma, è tempo di una rivoluzione e quale momento migliore per dare una scossa anche alla fondamenta stesse della serie? La mossa di SEGA è stata senza dubbio rischiosa ma ha ripagato con un gioco che cambia molto per rimanere comunque fedele a se stesso, proponendoci una nuova visione che prende posto nell’economia della saga come se le fosse sempre appartenuto e stesse cercando il momento giusto per occuparlo. Non è facile creare continuità andando a cambiare le basi stesse di un franchise ed è per questo che, al netto di alcune sbavature, il lavoro svolto è di indubbio valore.
L’anno è il 2000. Ichiban Kasuga è il giovane e un po’ goffo membro del clan Arakawa, affiliato al clan Tojo, che vive la propria vita come un enorme gioco di ruolo, appassionato fin da bambino alla serie Dragon Quest al punto da sognare di diventare, un giorno, quell’eroe che l’ha accompagnato nelle sue avventure virtuali. Soprattutto, Kasuga è uno yakuza con dei ferrei valori morali autoimposti, che spesso lo spingono nei guai a causa del suo buon cuore ma sembrano trovare le simpatie del capofamiglia Masumi Awarakawa, tanto che questi gli ha affidato il figlio, malato fin dalla nascita e costretto su una sedia a rotelle.
Non c’è nulla che Kasuga non farebbe per il proprio clan, persino accettare di scontare una lunghissima pena per un omicidio da lui non commesso: sono anni lenti e difficili, sorretti dalla convinzione che una volta uscito tutto sarà come e meglio di prima, finché la realtà non lo colpisce con tutta la sua forza. Il 2019 gli consegna un mondo che non conosce, frenetico, tecnologico ma soprattutto profondamente diverso per quel che concerne la sua vita. Tutto è sottosopra e non importa quanto lui si impunti, la sua testardaggine, le sue speranze e i suoi grandi propositi si scontrano con gli ingranaggi che muovono tutto e il contrario di tutto: proprio su questi aspetti, della forza di volontà come leva per sollevare il mondo, o dell’estrema lealtà che caratterizzava la vecchia yakuza e fa ancora parte di Kasuga, SEGA si appoggia molto solo per travolgerci con la realtà dei fatti.
La vita non è quel grandioso gioco di ruolo che il protagonista si aspettava, è più cruda di quanto potresti mai aspettarti e ti calpesta senza chiedere il permesso, lamentando anzi la tua eventuale reazione. Non esiste solo la nostra visione ma quella di chiunque incrocerà il nostro cammino e sarà, nel bene o nel male, diversa; presenterà una delle numerose sfaccettature di Yokohama e più in generale della vita, spingendoci a comprendere che, per citare direttamente il gioco, non possiamo sbraitare su ciò che non rientra nella nostra personale concezione di moralità. Dietro la gestione di un bordello potrebbero esserci ragioni più profonde del mero profitto, che spesso si legano all’immigrazione e alla necessità di avere un appoggio laddove, altrimenti, ci si troverebbe in balia del nulla. La stessa criminalità organizzata, piccola o grande che sia, è molto più stratificata di quanto appare e non mancano, alle sue spalle, situazioni di razzismo sociale che non lasciano molta scelta a chi ne rimane marchiato.
Yakuza: Like a Dragon raccoglie a piene mani e nell’assoluto rispetto l’eredità del Drago di Dojima
L’intero Yakuza: Like a Dragon è un’enorme zona grigia, sempre per citare il gioco stesso, all’interno della quale il mondo ci viene mostrato per quello che è davvero, lontano dai palazzi del governo e dalla vita di tutti i giorni che a noi può sembrare scontata ma qui assume un valore del tutto diverso. In questa ragnatela di relazioni sociali e personali si deve districare Kasuga, concentrato sul proprio viaggio dell’eroe che lo porterà soprattutto a una crescita interiore, lungo una strada lastricata di sangue dove vendetta e odio – tematiche portanti della serie – sono ancora una volta ben presenti.
Giocare a Yakuza: Like a Dragon, seguirne soprattutto la storia, è come assistere a un grande kabuki dove, a dispetto di alcune situazioni assurde, la drammaticità si respira a ogni passo. SEGA ci illude con piccoli episodi all’apparenza stucchevoli, bocconi di un tessuto narrativo ben più complesso, profondo e audace che si costruisce anche su queste storie marginali fino a un certo punto, perché poi si rivelano i tasselli fondamentali della sua storia corale.
Non c’è alcun dubbio che Yakuza: Like a Dragon abbia raccolto a piene mani e nell’assoluto rispetto l’eredità del Drago di Dojima, fondendo passato e presente in un soft reboot che non potrebbe essere narrativamente meglio espresso. Questo grazie anche a un cast di personaggi memorabile, che si imprime a fuoco nella nostra mente e diventa parte di noi, diventando una delle tante vite che viviamo giocando. Si prende i suoi tempi, e questo potrebbe annoiare qualcuno, ma a un certo punto i semi piantati fino a quel momento sbocciano in un crescendo di azione e drammaticità che premia su tutta la linea la nostra attesa.
Sotto il profilo del gameplay c’è la vera e propria rivoluzione di Yakuza: Like a Dragon, sebbene molto sia rimasto come lo ricordavamo: restano i minigiochi, assurdi, folli e divertenti come solo la serie ci ha dato in questi anni, la quantità missioni secondarie arricchita dal nuovo “eroe part-time” – ovvero una meccanica che presenta missioni ad hoc per soddisfare il desiderio eroico di Kasuga e aumentare la nostra reputazione in quanto tale nell’area di Isezaki Ijincho a Yokohama -, posti dove mangiare, bere, giocare e insomma, tutto ciò cui Kamurocho ci ha abituato ma in un quartiere inedito, molto più grande del precedente e che nulla ha da invidiare al passato.
Se siete patiti di minigiochi, state tranquilli che una ventina di ore buone possono essere spese solo qui, tra prove di volontà per non addormentarsi al cinema (in un curioso rimando a Catherine), gare di kart lungo le strade cittadine, rispetto dell’ambiente con un’ecologica raccolta di lattine all’ultimo colpo gobbo, la gestione di una propria azienda per portala dal fondo alla cima della piramide, o la cattura dei cosiddetti Sujimon, in Yakuza: Like a Dragon è impossibile annoiarsi.
Il cuore pulsante risiede però nel suo sistema a turni, un cambio radicale di direzione che lo porta da essere action a GdR e che nonostante tutto riesce a restituire quella dinamicità propria dei precedenti capitoli: certo, si è legati alle sue meccaniche e dunque la libertà di movimento in senso stretto è limitata ma ci sono talmente tanti approcci con cui affrontare gli scontri che questa necessità quasi non si sente. Soprattutto perché gli spostamenti naturali dei personaggi, che non restano fermi impalati ma si “aggirano” per il campo di battaglia studiandosi a vicenda, ci obbligano spesso a rivalutare la nostra strategia in base al loro posizionamento perché esiste il concetto di interruzione dell’azione che potrebbe rivelarsi fatale se ignorato. Così come noi siamo liberi di effettuare attacchi di opportunità sui nemici a terra, loro di contro possono colpirci se cerchiamo di muoverci verso un altro obiettivo senza disingaggiare. In questo senso non si parla di un vero e proprio comando di disingaggio quanto di osservare la scena ed eventualmente aspettare che l’attenzione del nemico passi da noi a un compagno di squadra, cosa possibile proprio grazie alla dinamicità dei personaggi che pur non essendo sotto il nostro controllo si muovono di continuo cambiando le dinamiche dell’azione.
Il sistema di combattimento di Yakuza: Like a Dragon vince la sfida del passaggio di testimone
All’attacco base e all’utilizzo di oggetti si affiancano le tecniche, che variano dallo spassoso al violento senza soluzione di continuità e, di nuovo, rispondono alle logiche dei GdR: ci sono i colpi contundenti, quelli di taglio e le magie, a loro volta suddivise in varie categorie, che risultano efficaci contro determinate tipologie di nemici ma non solo, hanno anche un potere d’impatto che varia da debole a estremo. Inoltre, per massimizzare il danno c’è un piccolo quick time event da soddisfare per tempo in modo da trarre il meglio da ogni offensiva. Allo stesso modo, Yakuza: Like a Dragon prevede una costante attenzione da parte nostra grazie alla meccanica della difesa perfetta, che ci permette di contenere molto i danni premendo con il giusto tempismo il pulsante dedicato. A differenza dei QTE legati agli attacchi, non ci sarà alcun indicazione a schermo per farci capire quando premerlo, dovremo essere noi ad anticipare i nemici leggendone gli attacchi e agendo con la dovuta reattività.
Cosa sarebbe, però, un GdR vecchia scuola senza i cosiddetti job? Gli sviluppatori lo sanno bene e hanno implementato anche questa caratteristica, permettendoci dunque di scegliere quale mestiere ricoprire da un’agenzia di collocamento per cercare sia il più adatto a noi sia funzionale alla sinergia della squadra. Non sono tutti disponibili fin dall’inizio, dovrete impegnarvi per sbloccarli, ma la spesa vale assolutamente l’impresa: la varietà è notevole, aperta alla sperimentazione e molto anche al grinding, considerato che ogni lavoro ha un proprio livello di progressione e cambiarlo significa dover ricominciare da 1. Ovviamente non aspettatevi i mestieri classici medievali, qui si parla di bodyguard, agente, hostess, eroe e chi più ne ha ne metta, per andare ironicamente incontro ai tempi moderni pur mantenendo quella struttura tanta cara a Kasuga e alla sua passione per i videogiochi.
Nel complesso, forte anche di un’altra piccola chicca che non vi riveleremo per non scadere nello spoiler, il sistema di combattimento di Yakuza: Like a Dragon vince la sfida del passaggio di testimone, attestandosi come un’ottima transizione tra la profonda dinamicità del tempo reale e le battaglie a turni, che con i dovuti limiti mantengono il ritmo offerto dai titoli precedenti. Non è tuttavia perfetto, poiché l’intelligenza artificiale alleata tende a compiere azioni illogiche o a rimanere incastrata negli elementi dello scenario qualora questi si frapponessero tra essa e l’obiettivo; a volte si allontana da un nemico abbattuto, quando potrebbe restare nei paraggi per un attacco di opportunità, oppure calcia un oggetto senza curarsi del fatto che in traiettoria ci sia un alleato, colpendo lui anziché l’avversario. Insomma, sbavature che a volte fanno storcere il naso ma per fortuna non inficiano davvero l’azione, concorrendo più che altro a rallentarla. Nondimeno, avrebbero beneficiato di una maggiore ripulita.
Pur avendo giocato Yakuza: Like a Dragon su Xbox Series X, l’ottimizzazione del gioco arriverà con l’uscita dello stesso e dunque non abbiamo potuto beneficiarne. Questo non ci ha impedito di godere della complessiva qualità artistica del gioco, che nella sua ricerca dei particolari mette in scena uno spaccato della realtà giapponese il cui valore supera quello del motore che permette loro di prendere vita. Se infatti, a dispetto di una indubbia qualità, siamo ancora nell’area della current gen e nemmeno ai suoi ultimi stadi (consideriamo che Yakuza: Like a Dragon è uscito a gennaio in Giappone), il continuo contrasto che emerge in ogni angolo di Yokohama, dalle zone più povere a quelle più vive e indaffarate, colpisce come poche cose: c’è un continuo gioco di luci, di ombre e di contrasti (visivi e non) che rendono la frenetica vita di quest’area vibrante, al punto da lasciare la sensazione di poterla toccare con mano.
Le animazioni durante le esplorazioni sono buone, sebbene ancora un po’ rigide, mentre nelle fasi di combattimento danno il loro meglio grazie a una prossemica che differenzia persino il singolo nemico: ciascuno trasmette la propria natura, se così vogliamo definirla, dallo yakuza sbruffone al cittadino ubriaco. Per non parlare poi della fisicità dei colpi, che sembra a tratti di sentire sulla propria pelle. Tutto, in Yakuza: Like a Dragon, vibra di un’energia propria e passa non solo dai gesti ma anche dalle parole, grazie a un doppiaggio giapponese come sempre impeccabile – né, a parer nostro, esiste altro modo in cui fruirlo sebbene l’inglese risulti ugualmente valido. I sottotitoli in italiano, poi, vi permettono di godere della storia senza problemi. Ultima ma non per importanza la colonna sonora, che passa da brani più moderni ad altri ispirati ai GdR vecchia scuola grazie a tonalità 8-bit incredibilmente calzanti nonostante il contesto moderno.
Yakuza: Like a Dragon è una scommessa vinta e un ottimo punto di ripartenza per la serie: persino nelle più rosee previsioni era difficile immaginare fino a che punto gli sviluppatori sarebbero riusciti a mantenersi fedeli a una tradizione di lunga data, eppure ci sono riusciti quasi alla perfezione. Il gioco si distingue chiaramente dai predecessori, vive di vita propria e non di gloria riflessa, presenta un sistema di combattimento ben integrato nel concetto di ritmo e fluidità che ha caratterizzato i titoli precedenti nonostante sia un GdR a turni, ma soprattutto è stato in grado di tessere una storia sublime in cui i temi più cari a Yakuza si sposano con altri non meno importanti. Una trama composta da più storie, che assieme costruiscono le maglie di un tessuto narrativo drammatico, emozionante, coinvolgente, persino folle e a tratti assurdo come siamo stati abituati a vedere, ma dalla qualità sempre altissima. Ha i suoi tempi e bisogna comprenderli, nonché accettarli, ma se gli darete questa fiducia sarete ripagati nel migliore dei modi. Un nuovo Drago è pronto a calcare le scene, raccogliendo a piene mani l’eredità di Kiryu tanto nella storia quanto nel gameplay e portandole il rispetto che merita. |